Tutto funziona in questo Land of Mine, lungometraggio diretto dal regista danese Martin Zandvliet: una sceneggiatura senza sbavature, interpretazioni sempre appropriate, credibili, scenari che forniscono uno sfondo opportuno allo sviluppo della storia e una fotografia dai colori pastello che impreziosisce tutto l’insieme, smorzando in parte la drammaticità delle vicende raccontate. Un meccanismo perfetto che gira dall’inizio alla fine senza incertezze.
Parliamo di fatti realmente accaduti nel Maggio del 1945 quando, dopo la ritirata delle forze naziste, alcuni soldati tedeschi, fatti prigionieri, vennero brutalmente arruolati per svolgere una rischiosissima missione, ovvero disinnescare più di due milioni di mine dislocate sull’intera costa nord occidentale della Danimarca (disseminate dagli stessi tedeschi che previdero erroneamente in quella zona lo sbarco delle forze alleate). Un incarico difficilissimo da portare a compimento, dato che con una così grande quantità di ordigni c’era sempre la possibilità, anche per l’artificiere più navigato, del tragico imprevisto. A rendere ancor più crudele la situazione fu la giovane età dei militari tedeschi coinvolti, poco più che ventenni, animati solo dal desiderio di tornare a casa per poter ricostruire sulle rovine di un impero ormai svanito.
Il film inizia con un dinamico carrello su una carovana di prigionieri che sfila nella campagna danese, e viene subito introdotto il protagonista del film, un austero e violento sergente che, pieno di rancore nei confronti di quelle che furono le forze occupanti, si scaglia a caso contro alcuni dei soldati, urlandogli addosso e picchiandoli senza una ragione, mettendo in atto, probabilmente, una sacrosanta nemesi, considerando gli innumerevoli delitti commessi dall’esercito tedesco. Per una volta assistiamo all’inversione delle parti, i carnefici diventano vittime, e anche chi osserva, pur scosso dalla violenza del sergente, comprende le profonde ragioni che sottendono il suo discutibile comportamento. Poi un manipolo di soldati scelti, composto da quattordici elementi, viene condotto a ridosso della spiaggia da sminare, in un capanno che ricorda non poco per la sua fatiscenza le altrettanto misere dimore riservate agli ebrei nei campi di concentramento. Insomma, un vero e proprio contrappasso. Il sergente non ha pietà per i suoi sottoposti, li tratta come animali, gli nega il cibo, e la notte li chiude dentro con un paletto, stipandoli come in una stalla. Eppure questi ragazzi si danno da fare, giorno dopo giorno si disfano di un gran numero di mine, anche se non mancano gli incidenti che, alla fine, comporteranno più di dieci morti. La tensione che si prova durante lo svitamento del detonatore è palpabile, e il regista ha saputo restituirla egregiamente senza abusare di artifici tecnici o contrappunti musicali innestati ad arte.
Il sergente, comunque, man mano che il tempo passa e la tragedia di questi giovani si fa sempre più lampante, muta lentamente atteggiamento, e da tiranno che era diviene un adulto mosso da compassione per il loro funesto destino. Comincerà ad aiutarli, per quel che può, arrivando a mettersi contro i suoi superiori. Il finale, che non sveliamo, ridona un po’ di speranza a una vicenda davvero dura che, nel ’45, vide l’impiego di oltre duemila soldati tedeschi, di cui solo una piccolissima parte tornò in Germania. Un triste avvenimento assai poco conosciuto e che, attraverso questo film, è per la prima volta messo sotto i riflettori, aggiungendo un prezioso tassello al mosaico di una Storia sempre difficile da conoscere fino in fondo. Un film epico, commovente, necessario.
Luca Biscontini