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Intervista a Olive Père: il valore artistico della critica nel panorama cinematografico contemporaneo

In dialogo con il Direttore Generale di ARTE France Cinéma, con cui Taxi Drivers collabora come Media Partner dell’ARTE Kino Festival

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Oliver Père, critico cinematografico e attuale Direttore Generale di ARTE France Cinéma nonché Direttore dell’Unità Cinema di ARTE France, rappresenta oggi una delle voci più autorevoli e influenti nel panorama della critica internazionale. La sua attività, caratterizzata da uno sguardo rigoroso ma al tempo stesso aperto alla sperimentazione, ha contribuito negli anni a ridefinire il modo in cui si osserva, interpreta e valorizza il cinema d’autore contemporaneo.

Fin dagli esordi, Oliver Père ha dimostrato una rara predisposizione nel riconoscere il potenziale di cineasti emergenti, spesso anticipando tendenze e mutazioni narrative ben prima che venissero accolte dal grande pubblico o dai circuiti festivalieri. Il suo approccio anticonvenzionale alla Settima Arte — attento alle rotture stilistiche, ai nuovi linguaggi visivi e alle trasformazioni culturali  — lo ha reso un punto di riferimento imprescindibile per studiosi, spettatori e professionisti dell’industria.

Profondamente legato al ruolo del cinema come spazio di libertà espressiva e laboratorio creativo, Oliver Père continua a sostenere opere e autori capaci di ampliare i confini dell’immaginario, contribuendo così alla missione di ARTE France: dare voce a produzioni innovative, coraggiose e artisticamente rilevanti.

Abbiamo avuto modo di discutere con Oliver Père di critica cinematografica, processi creativi e del ruolo dei festival nel panorama internazionale contemporaneo. Di seguito l’intervista.

Mr. Oliver Père, è un piacere poter conversare con lei e conoscerla. Negli anni lei ha raccontato, programmato e accompagnato voci cinematografiche molto diverse tra loro. Oggi, in un panorama che sembra oscillare tra radicalità autoriale e necessità produttive, qual è il criterio che più la guida nel riconoscere un’opera davvero “necessaria”?

Grazie per la domanda. Che cos’è un film necessario? Forse un’opera che nasce soltanto dall’urgenza interiore del suo autore. Da osservatore del cinema contemporaneo, però, preferisco distinguere tra film meritevoli e film ammirevoli. I film meritevoli sono quelli che si sente il desiderio di sostenere e di difendere. Colpiscono per le loro intenzioni, per la sincerità dello sguardo, e per la promessa — se tutto va bene — di una vera riuscita artistica.

I film ammirevoli, invece, impongono la loro forza già dalla lettura della sceneggiatura, come accade ad Arte France Cinéma. Fin dalle prime pagine si percepiscono l’ambizione, la visione e la padronanza del cineasta. Si intuisce che il film sarà importante, forse magnifico. Questo presuppone una conoscenza del suo percorso, ma anche la capacità di riconoscere, nelle premesse del progetto, fervore creativo, controllo e ispirazione.

I selezionatori dei festival, al contrario, si confrontano con opere già compiute, delle quali sono tra i primissimi spettatori. Possono così giudicare direttamente i film e orientarsi tra possibili capolavori, lavori di maestri, oppure opere meno compiute ma audaci, originali, capaci di annunciare la nascita di un autore davvero promettente.

Durante la sua direzione alla Quinzaine di Cannes e poi al Festival di Locarno, ha spesso sostenuto cineasti capaci di reinventare linguaggi e forme. Oggi, quali sono secondo lei le nuove geografie creative da cui arriva il cinema più vitale e sorprendente?

Grazie, in effetti ho cercato sempre di portare avanti il lavoro di cineasti emergenti che mi sembravano capaci di inventare qualcosa di nuovo, o di radicalmente audace, all’interno della produzione contemporanea, in diversi paesi d’Europa, d’Asia, del Medio Oriente o delle Americhe (Nord e Sud). Quest’ambizione è rimasta la stessa alla guida di Arte France Cinéma. Non potrei citare un Paese o una zona geografica che proponga ogni anno un insieme impressionante di scoperte.

Diciamo che le rivelazioni sono spesso isolate e provengono da numerosi luoghi del mondo. Si tratta di giovani donne e uomini che emergono con opere cinematografiche capaci di entusiasmarci e di attirare l’attenzione del pubblico e della critica grazie alla loro esposizione nei grandi festival internazionali. Citiamo come esempi Payal Kapadia (All We Imagine as Light, India), Vincent Le Port (Bruno Reidal), Bi Gan (Resurrection, Cina), Gints Zilbalodis (Flow, Lettonia) e naturalmente i cineasti della generazione precedente, talvolta scoperti a Cannes o Locarno, che è importante continuare ad accompagnare quando il loro lavoro non smette di suscitare la nostra ammirazione e di acquisire un’ampiezza eccezionale. Per quanto riguarda la selezione di ARTE Kino Festival, si tratta piuttosto di un lavoro di esplorazione e di diffusione che permette di far scoprire film europei indipendenti molto recenti, spesso realizzati da giovanissimi cineasti promettenti.

Si parla molto della crisi dei festival e, allo stesso tempo, della loro imprescindibilità nel dare un respiro internazionale ai film. Qual è, dal suo punto di vista in merito, il vero ruolo dei festival oggi: scoperta, cura, resistenza culturale?

Dipende dai festival: Cannes, Venezia, Berlino sono vetrine indissociabili dall’eccellenza artistica e dalla forza economica dell’esposizione delle opere all’interno delle loro selezioni. Questi grandi festival rispettano l’equilibrio necessario tra scoperta di nuovi autori, consacrazione di altri, sorprese e appuntamenti con firme imprescindibili, glamour ed esigenza artistica. Altri festival hanno scelto di specializzarsi nella promozione e nella rivelazione di cinematografie particolari, per generi o zone geografiche, e si tratta di un lavoro altrettanto importante su scala internazionale. Altri festival funzionano maggiormente come relais tra le opere e i pubblici, partecipando alla loro diffusione sul grande schermo, in un periodo in cui il cinema d’autore fatica a esistere in sala in numerosi paesi del mondo. Svolgono un ruolo al tempo stesso di diffusori e di educatori, il che è molto importante anch’esso. In un mondo in cui la creazione cinematografica è fragilizzata e messa in pericolo (crisi economiche, culturali e politiche, spesso tutte e tre insieme), i festival hanno un ruolo essenziale da svolgere, e lo svolgono piuttosto bene grazie a persone e squadre che sono mediatori appassionati.

Da critico e da selezionatore lei lavora su un confine singolare: quello tra lo sguardo analitico e quello istintivo. Quando vede un film per la prima volta, qual è il segnale — una scelta di messa in scena, un ritmo, un personaggio — che le fa capire di avere davanti qualcosa che vale la pena difendere?

Tutto è questione di messa in scena: le scelte estetiche, la direzione degli attori, il montaggio. Bisogna essere capaci di distinguere tutto ciò già dalla lettura della sceneggiatura, il che non è sempre evidente quando il cineasta è ancora sconosciuto. Alla visione di un film, le cose si chiariscono più facilmente. Naturalmente la storia e il soggetto di un film sono importanti (i due non sono necessariamente la stessa cosa), ma è la scrittura cinematografica che farà la differenza, grazie a scelte affermate, non convenzionali, coraggiose e padroneggiate. Ho la fortuna, o il difetto, di poter apprezzare o ammirare film molto diversi nel loro approccio alla messa in scena. Posso amare l’armonia o la dissonanza, il caos o l’essenzialità, la prosa o la poesia. Ma cerco nel cinema di oggi emozioni e interrogativi altrettanto forti, di quelli che ci offrono alcuni capolavori della storia del cinema, o film meno celebrati ma che figurano nei nostri pantheon personali. È raro, ma ogni anno esistono film miracolosi che mi colmano totalmente o mi sconvolgono in quanto spettatore, che Arte sia implicata o meno nella loro realizzazione. Per esempio quest’anno: L’Agent secret di Kleber Mendonça Filho, Tardes de soledad di Albert Serra, La Tour de glace di Lucile Hadzihalilovic, Oui di Nadav Lapid, Bring Her Back di Michael e Danny Philippo.

In quanto direttore di ARTE France Cinéma come vede il futuro del panorama cinematografico nel nostro contemporaneo? In un tempo in cui tutto velocemente si esaurisce e l’immagine sembra perdere peso specifico, cosa significa per lei restare fedele a un’idea di cinema che ancora interroga lo spettatore, provoca, e non si adegua agli standard della stagione? Per lei il cinema, è più logica, mistica, o risiede in uno spazio nel mezzo?

Vasta domanda. Attraversiamo un’epoca paradossale in cui i nuovi talenti, l’energia creatrice e il desiderio di cinema non mancano, ma in cui diventa sempre più difficile produrre opere realmente audaci e innovative. Perché il cinema costa caro, è raramente redditizio (nel settore del vero art et essai) e non è aiutato e sostenuto allo stesso modo in tutti i paesi. La produzione francese è ancora molto privilegiata, ed è necessario che lo resti perché la Francia aiuta anche la produzione di film d’autore del mondo intero. Penso che sia necessario anche che il cinema conservi questa dimensione eccezionale, forse mistica come dice lei, perché è ciò che lo distingue dalla standardizzazione di programmi o di contenuti audiovisivi destinati ai nuovi schermi o alle sale dei multiplex. Solo così il cinema potrà vivere ancora a lungo: offrendo esperienze che nessun’altra arte o spettacolo di massa può procurare al pubblico, nella speranza che questo pubblico non si riduca a una pelle di zigrino, ma che ringiovanisca, si moltiplichi e continui a esistere nel mondo intero, talvolta disperso, talvolta minoritario, ma sempre appassionato e resistente.