C’è un luogo, a ovest di Zapata, dove il mondo sembra arrestarsi.
Lì, l’acqua e la terra si confondono, e ogni suono sembra impastato nel fango. È da qui che parte il documentario di David Bim, presentato alla 66ª edizione del Festival dei Popoli di Firenze nel Concorso Internazionale.
Un uomo avanza nel fango, con un coccodrillo sulle spalle. La sua sagoma emerge dal paesaggio umido, il corpo piegato sotto il peso dell’animale appena strappato alla vita. Nessuna musica accompagna la scena: solo il respiro affannato e il frusciare dell’acqua, un ritmo primordiale che scandisce il passo lento e costante. È Landi, cacciatore di palude, che attraversa la pianura cubana come un Cristo terreno, segnato dal lavoro e dalla necessità di sopravvivere. Per quasi quattro minuti, un unico piano sequenza ci lega a lui, senza interruzioni né deviazioni.
Il tempo affonda nella palude
In questa sospensione il tempo storico si fa rarefatto, quasi dissolto. Solo la voce lontana di una radio che riporta notizie del 2021, anno della pandemia globale, e ci riconduce al presente, ricordandoci che questo mondo apparentemente arcaico appartiene ancora al nostro tempo. Eppure, nel microcosmo della palude, il virus è soltanto un’eco distante. La vita di Landi si misura su altri ritmi: la barca, la caccia, il ritorno al villaggio dopo giorni di silenzio e fatica. È un tempo che non conosce accelerazioni, un presente la cui ripetizione diventa segnale di quieta sopravvivenza.

Due universi a confronto
Nel villaggio, la compagna Mercedes e il figlio Deinis abitano un altro ritmo del tempo.
La casa, la strada ai margini della foresta dove Mercedes subisce gli sguardi e le parole degli uomini, la televisione accesa che ripete le stesse notizie della radio ormai ridotte a semplice brusio di fondo: tutto compone un universo domestico denso di rumore e immobilità. Qui il film cambia respiro. La luce si fa più piatta, i suoni più invadenti e la quotidianità si oppone al silenzio sospeso della palude. Anche in questo spazio, però, il tempo non scorre: resta impigliato nell’attesa.
Il compagno non si è fatto sentire da tre giorni e per Mercedes la quotidianità diventa l’unico modo per ancorarsi al presente e non lasciarsi travolgere dalla preoccupazione. Il loro ricongiungimento non ha enfasi: è solo un respiro trattenuto che si scioglie nell’aria, e la vita che, inevitabilmente, riprende a scorrere.

Il bianco e nero scelto da Bim asciuga il mondo da ogni distrazione.
Il nero si insinua nelle pieghe della pelle, il corpo di Landi, magro e teso, si confonde con i rami e le radici della foresta, mentre i corpi inerti dei coccodrilli risaltano come il cielo in un bianco quasi divino.
Bim mantiene un atteggiamento discreto, a tratti sembra limitarsi a registrare, come in un reality osservato da lontano. Ma quando Landi si ferisce durante una battuta e solleva lo sguardo verso l’obiettivo, la distanza tra lui e lo spettatore si dissolve. Una goccia d’acqua scivola sulla lente e il confine tra chi filma e chi è filmato si sfoca. In quell’istante, l’illusione si incrina: il film smette di essere pura osservazione e diventa partecipazione. L’occhio della macchina non è più neutro, respira, suda, si bagna insieme al suo soggetto.
La misura dell’uomo nella natura
Il film non cerca di catturare l’immensità della natura, ma la misura dell’uomo al suo interno. To the West, in Zapata restituisce al reale il suo ritmo primario, trasformando la sopravvivenza in esperienza estetica e l’osservazione in un atto di empatia assoluta. Un cinema che respira insieme ai suoi protagonisti.