Una videocamera con la quale la protagonista riprende momenti di un’estate: quella dei suoi tredici anni.
Uno strumento che oggi è diventato il nostro terzo occhio, capace di catturare ogni frammento di vita.
In Skin Despair, in concorso al Festival dei Popoli 2025, la videocamera diventa specchio e filtro di un passaggio delicatissimo: quello tra l’infanzia e l’adolescenza.
Un diario visivo della trasformazione
Il corto, firmato da Mireia Vilapuig, si presenta come un racconto personale e allo stesso tempo generazionale: un diario visivo che esplora la trasformazione del corpo e della mente di una ragazza che comincia a fare i conti con uno sguardo esterno invadente e, spesso, violento.
Lo stile netto e diretto della regista cattura con grande sensibilità quel momento in cui tutto cambia — la pelle, lo sguardo, la percezione del sé — restituendo un senso di vulnerabilità che si fa quasi fisico.
La violenza silenziosa dello sguardo
Vilapuig mette in scena le sfide silenziose della crescita e la perdita dell’innocenza in un mondo che osserva, giudica e trasforma le giovani donne in bersagli di attenzioni indesiderate. La protagonista cerca di ignorare, di resistere, ma resta intrappolata in una rete invisibile di sguardi e aspettative.
In questa tensione si rivela lo sguardo critico del corto: una denuncia implicita ma potentissima della persistenza di uno sguardo maschile dominante, ancora capace di definire e limitare la libertà femminile.
Il rifugio e la rinascita
A questo sguardo esterno la protagonista oppone un movimento inverso: si ritira dentro se stessa, cercando rifugio in uno spazio interiore che diventa quasi mitico — una “grotta”, simbolo di protezione, di isolamento, ma anche di rinascita. In quel gesto c’è tutto il bisogno di silenzio e di identità che accompagna la fine dell’infanzia.
Skin Despair è quindi un corto intimo e necessario, che non racconta soltanto la storia di una ragazza, ma anche quella di una generazione che vive costantemente esposta, registrata, osservata e giudicata. L’estetica della videocamera amatoriale, volutamente imperfetta, amplifica la sensazione di realtà e vulnerabilità, trasformando il linguaggio del digitale in linguaggio del corpo.
Un ritratto di libertà fragile
Con la sua regia delicata e onesta, Mireia Vilapuig costruisce un ritratto di formazione poetico e riflessivo. In pochi minuti riesce a condensare l’intero processo di crescita femminile, con le sue paure, le sue scoperte, e quel desiderio di libertà che resiste sotto la pelle.
Un piccolo corto che lascia il segno, perché dietro la sua apparente semplicità nasconde una riflessione profonda sulla nostra epoca iperconnessa: un’epoca in cui l’immagine è diventata il nostro linguaggio più immediato, ma anche il nostro limite più invalicabile.
E allo stesso tempo, Skin Despair ci ricorda come quel terzo occhio, la videocamera, possa anche custodire la memoria di un’adolescenza che è stata di tutti noi: un’estate fatta di paure, di cambiamenti e di quella fragile bellezza che solo il tempo sa restituire.