Belgrado, 2015. La giovane Fereshteh (Fereshteh Hosseini), in fuga dall’Afghanistan in guerra, giunge col marito Reza (Reza Akhlaghirad) e i suoi tre figli nella capitale serba. Qui dovrebbe incontrare il fratello minore Alì, del quale tuttavia si sono perse le tracce.
Quest’ultimo potrebbe essere un ragazzo morto annegato qualche giorno prima, il cui corpo – irriconoscibile a causa del forte stato di decomposizione – rischia di essere seppellito come “persona sconosciuta”.
Nell’incertezza che si tratti dell’amato congiunto, la donna si oppone a che ciò avvenga e, con l’aiuto dell’interprete Nikola (Nikola Ristanovski) e dell’avvocato Zoran (Vule Markovic), ingaggia una dura lotta affinché quelle spoglie vengano identificate e sotterrate col loro vero nome.
Nel frattempo, l’imminente chiusura dei confini da parte dell’Ungheria rischia di farle perdere l’opportunità di raggiungere la Germania, dove conta di stabilirsi con la propria famiglia.
Il silenzio degli dei: un dramma intenso e vibrante
L’amore fraterno oltre ogni confine. È da qui che prende le mosse Il silenzio degli dei (2024), nuovo lungometraggio del serbo Vuk Rsumovic, il quale, dopo l’ottimo esordio nel lungo con Figlio di nessuno (2014) – storia di un’infanzia difficile nel contesto della guerra nell’ex Jugoslavia – ci propone un dramma intenso e vibrante, presentato all’ottava edizione dell’Euro Balkan Film Festival.
Un racconto semplice nella sua trama, che tuttavia rivela una complessità di temi in cui le istanze individuali legate alla dignità e all’identità finiscono per incrociare i drammi della guerra, dell’immigrazione e dei diritti negati.
“Questi li chiamate diritti umani!?”
“Siamo scappati dall’Afghanistan pensando che l’Unione Europea ci avrebbe trattato da esseri umani!”
Non è un caso che il film inizi con queste frasi, autentici statement che certificano la posizione di Rsumovic e definiscono la cornice entro la quale agisce la sua Fereshteh, moderna Antigone chiamata, in nome del legame fraterno, ad abbattere barriere e preconcetti.
La protagonista Fereshteh come una moderna Antigone
La giovane afghana, proprio come la protagonista della tragedia di Sofocle, si trova a dover lottare contro quella legge scritta che ha perso il senso dell’umanità. Un nomos non soltanto rappresentato dalla fredda burocrazia, dal suo status di rifugiata, dall’iniziale indifferenza e dalla minaccia di un confine chiuso, ma anche da quella cultura patriarcale legata alla sua terra d’origine.
È tutto ciò a cui Fereshteh si oppone con costante, indefettibile ostinazione, in una sorta di inesorabile crescendo destinato a culminare in quell’urlo liberatorio con cui si compie il suo arco di trasformazione da donna sottomessa a donna libera.
È la forza dell’amore a guidarla in questa tenera, necessaria e umanissima ribellione. Ed è quel che trasforma Fereshteh in una sorta di eroina, in un archetipo assoluto.
In tal senso, le scelte formali di Rsumovic risultano del tutto coerenti: l’uso della camera a mano, la scelta della palette di colori e il ricorso a delle lenti anamorfiche non soltanto contribuiscono a descrivere il senso di angoscia e isolamento della protagonista, ma risultano pienamente funzionali a risaltarne i tratti epici.
Una storia dalla dimensione universale
Ecco perciò che, pur in un contesto realista, le azioni della donna finiscono per assumere un valore simbolico e una declinazione politica che la proiettano in una dimensione universale: in quella lotta per dare degna sepoltura al suo Alì/Polinice, Fereshteh/Antigone non è più soltanto una sorella che rivolge un estremo gesto d’amore al proprio fratello, ma rappresenta l’emblema di chi vuol spezzare la catena di pregiudizi legati alla condizione di straniero.
La sua battaglia per dare un nome a quel corpo senza vita diventa la battaglia di chiunque per il riconoscimento della propria identità.
L’opposizione alla sepoltura da NN si trasforma nel rifiuto della disumanizzazione di termini come “immigrato” o “rifugiato”.
Ne costituiscono l’attestazione non soltanto le immagini del piccolo Alan Kurdi – il bimbo curdo di tre anni tragicamente annegato nel Mediterraneo nel 2015 – ma anche le didascalie finali che ci ricordano come “negli ultimi 30 anni, più di 50000 esseri umani hanno perso la vita tentando di raggiungere l’Europa. Quasi il 90% di loro sono stati sepolti senza nome e non hanno potuto raccontare la loro storia”.
A tutto questo, si aggiunge la ribellione della protagonista alle assurde pretese paterne. Un gesto che non traccia soltanto il segno di un’emancipazione conquistata, ma rappresenta anche l’invito a ogni donna a lottare per la propria libertà.
L’eterna lotta di Fereshteh
La dignità, dunque, come reazione all’ingiusta legge della polis. La pietas come argine alla sopraffazione. Il coraggio come mezzo per scardinare il potere. Un’eterna lotta contro ogni confine – politico, fisico, culturale – che la tenace Fereshteh – il cui volto pallido è intensamente incarnato da Hosseini ed efficacemente immortalato dai primi piani di Rsumovic – conduce in nome dell’amore e del senso di umanità all’interno di un quadro dove ogni altro personaggio risulta credibile e autentico.
Tra questi, Nikola, nella cui amicizia la stessa donna trova un segno di sincera solidarietà e un prezioso sostegno per una battaglia dalla quale, proprio come l’hemingwaiano Santiago de Il vecchio e il mare, rischia di uscire da vincitrice sconfitta.
Un tragico ossimoro dentro cui può racchiudersi il senso di quest’opera pregevole e coinvolgente che con garbo e intelligenza ci ricorda l’importanza del “restare umani”.