Il cortometraggio Un figlio, nato da un’idea di Marina Senesi e diretto da Carmen Giardina, è dedicato alla figura di Carmela Montinaro, madre di Antonio Montinaro, il capo scorta del magistrato Giovanni Falcone, ucciso nella strage mafiosa di Capaci il 23 maggio 1992. L’opera è liberamente tratta da uno scritto di Elisabetta Zecca.
È stato presentato alla 22ª edizione del Sedicicorto Film Festival.
Un figlio
La narrazione si sviluppa attraverso gli occhi innocenti della piccola Elisabetta (Clara Tarantini), che trascorre le vacanze estive nel cuore del Salento, a casa della nonna Carmela. Qui la bambina vive una favola spensierata: passa le sue giornate con la nonna tra giochi e risate, correndo tra gli ulivi durante una partita a nascondino, affondando le sue manine nella terra dell’orto o nella farina per preparare le orecchiette, ascoltando aneddoti e storie di famiglia narrati da Carmela. La nonna le parla anche del figlio Antonio, lo zio che la bambina non ha mai conosciuto, e lo fa sempre con gioia e con un sorriso, tanto da far associare alla piccola l’idea della morte a qualcosa di quasi “allegro”. La verità sulla scomparsa di Antonio viene svelata solo nel finale, dove il ricordo personale si fonde con la memoria collettiva della nazione.
Un dolore custodito nell’affetto familiare
Il punto di forza del cortometraggio risiede proprio in questo contrasto: la serenità della vita familiare in Salento, condita di giochi e pasta fatta in casa, nasconde, e al tempo stesso custodisce, un dolore immenso.
Carmela Montinaro è interpretata da Ottavia Piccolo, la quale ci offre una performance di grande intensità, riuscendo a rendere visibile la forza di una madre che, con immensa dignità, ha trasformato il suo dolore privato per la perdita di un figlio in un motore di giustizia e ricordo. Carmela incarna la forza della vita che si rinnova e che neanche la crudeltà della mafia può scalfire. Giardina utilizza inquadrature ravvicinate che permettono all’attrice di esprimere anche nel silenzio o dietro un malinconico sorriso il dolore custodito del lutto.
La macchina da presa si fa discreta testimone della dignità con cui Carmela Montinaro ha protetto la nipote, mantenendo allo stesso tempo viva la memoria del figlio.
La regia di Carmen Giardina
Con la sua regia Carmen Giardina riesce a veicolare un messaggio così potente nell’arco temporale di soli nove minuti. La sua scelta stilistica privilegia l’intimità emotiva e la delicatezza visiva, in netto contrasto con la brutalità dell’evento storico che sottende la narrazione.
Giardina sceglie di adottare il punto di vista della piccola Elisabetta e il tono iniziale è quello di un leggero ricordo d’infanzia; lo sguardo della macchina da presa corrisponde a quello di una bambina di sette anni. Questo si traduce in inquadrature che sono piccoli e gioiosi spaccati di vita rurale, che enfatizzano semplici dettagli come i giochi nella natura, i pranzi in famiglia, le orecchiette fatte in casa e soprattutto l’immancabile espressione serena e rassicurante di nonna Carmela. Elisabetta vedrà solo una volta il sorriso della nonna spezzarsi, in occasione di una visita al cimitero dove riposa Antonio. Questa sarà anche la prima volta in cui la tristezza farà breccia in questo luogo delle favole.
La regista è riuscita a parlare di una vicenda pubblica così nota attraverso un’angolazione diversa a cui non siamo abituati, in un modo originale e toccante. La scelta di parlare del pubblico partendo dal privato genera ancora più empatia nello spettatore e aumenta l’emozione suscitata. Viene raccontato un dolore intimo e privato, che può appartenere a chiunque, messo in ombra dallo scalpore di una vicenda pubblica.

Puglia, natura e territorio
Il cortometraggio è ambientato nel cuore del Salento, uno sfondo che ci appare idilliaco e ci fa sognare di aver vissuto anche noi dei ricordi come quelli di Elisabetta. Da subito siamo immersi in un’atmosfera quasi atemporale di felicità estiva e rurale. Il cortometraggio si apre con il rumore dei grilli che fa da sottofondo alla nonna che conta e fa finta di cercare la bambina tra gli ulivi. Questo luogo bucolico e scaldato dal sole rappresenta un espediente registico che rende ancora più forte il ribaltamento di prospettiva finale. La verità sulla scomparsa dello zio Antonio ci lascia con un sapore amaro in bocca che è difficile mandar giù.
Il Salento non rappresenta solo un’ambientazione da cartolina, ma un luogo che testimonia la vita semplice e autentica che la violenza mafiosa ha strappato via ingiustamente. Questo contrasto è usato dalla regia per dare maggiore spessore al concetto di vittima innocente. Il risultato è efficace e il messaggio veicolato acquista una portata universale: la storia colpisce tutti, grandi e piccoli.
Da ricordo privato a memoria collettiva
Il momento chiave del corto è la transizione dal piano personale, il ricordo di famiglia, a quello collettivo di memoria civile. L’utilizzo del finale a sorpresa è una scelta drammaturgica e registica precisa e ben riuscita: l’identità di Antonio Montinaro, rivelata solo nella conclusione, irrompe come un potente colpo di scena che inquadra retrospettivamente tutto ciò che è stato mostrato prima.
In conclusione, si può dire che Carmen Giardina dirige il corto con delicatezza e rispetto. La sua regia riesce a trasformare un tema storico e drammatico in una favola dolorosa raccontata in punto di piedi.
Con la durata di soli nove minuti, Un figlio riesce a toccare corde profonde, veicolando attraverso il racconto di un legame familiare un messaggio potente di memoria collettiva: l’importanza di non dimenticare i nomi di chi ha sacrificato la propria vita per lo Stato e per la giustizia. Un omaggio toccante e significativo non solo ad Antonio Montinaro e alla sua famiglia, ma a tutte le vittime innocenti della mafia, specialmente a quelle meno note, delle quali troppo spesso, purtroppo, tendiamo a dimenticare il nome.