Il cinema contemporaneo sta cambiando. Lentamente, ma sta cambiando. Stiamo assistendo a una trasformazione che prova ad andare oltre lo sguardo androcentrico, oltre le regole non scritte che per decenni hanno plasmato la narrazione sullo schermo.
Non si tratta solo di statistiche o premi. A volte il cambiamento lo vedi nei dettagli. Iniziative come la rassegna di MUBI, “All roads lead to the Lido: women at the Venice Film Festival”, nascono proprio da questa esigenza. Non è una semplice lista di film, ma un atto di rimessa a fuoco. Un invito a dare spazio a quelle opere e a quelle autrici che troppo spesso restano ai margini.
MUBI prende spunto da eventi che, negli ultimi anni, hanno animato la Mostra di Venezia. Come la rassegna “LEI – Libere, Emancipate, Indipendenti“ del 2022, sempre in collaborazione con la piattaforma. O la collezione successiva, “Donne che lavorano: una questione ancora aperta”. È un percorso che non si ferma a un elenco, ma che racconta storie, visioni e battaglie. Andiamo dunque a vedere da vicino in cosa consiste questa rassegna.
Senza tetto né legge (1985), Agnès Varda
Cominciamo da Agnès Varda, da sempre una delle registe più influenti, spesso ricordata come la “madre” della Nouvelle Vague francese. Le sue opere posseggono sempre qualcosa che rompe lo schema, accompagnato da un approccio sperimentale in grado di intrecciarsi con un realismo quasi documentaristico, che si fonde con un impegno costante riguardo le tematiche femministe e sociali.
L’opera cinematografica Senza tetto né legge, vinse il Leone d’Oro alla 42ª Mostra di Venezia. Aprendo le danze con un’immagine che non resta inosservata: il corpo senza vita di Mona (Sandrine Bonnaire). Da qui la narrazione ricostruisce, passo dopo passo, gli ultimi mesi della sua vita.
Ma Varda non dà spiegazioni, non cerca psicologie. Non vuole dirci “chi” fosse Mona. Sono le persone che lei incontra, i testimoni, a parlare, a raccontarla. Ognuno racconta un frammento, un pezzo della propria relazione con lei. Ed è così che il film diventa un ritratto collettivo, che costringe la società a guardarsi allo specchio ed a interrogarsi sulle leggi non scritte che governano la vita e la morte della protagonista.
Quo Vadis, Aida? (2020), Jasmila Žbanić
Jasmila Žbanić, classe 1974 è una regista e sceneggiatrice bosniaca, che ha vissuto il massacro di Srebrenica, un genocidio avvenuto nel luglio 1995. Un’esperienza che ha segna profondamente il suo cinema, portandola dunque a realizzare Quo Vadis, Aida?.Il titolo, in latino, significa “dove vai?”: una domanda semplice, ma che racchiude un significato non indifferente. Una domanda morale prima che storica, rivolta a tutta l’umanità.
Il film non si limita a ricostruire fatti e date, va oltre. Qui il centro è l’impotenza delle istituzioni internazionali. La pellicola mette in luce le scelte politiche che portarono all’abbandono di Srebrenica ed il fallimento premeditato di chi avrebbe dovuto proteggere. Non è un’ opera che vuole fare cronaca, ma un grido contro una burocrazia cieca. La protagonista, Aida (Jasna Đuričić), lavora come traduttrice per le Nazioni Unite. È dentro le stanze del potere, ma incapace di cambiare le cose. Vive un paradosso atroce: sapere tutto e non poter fare niente.
Presentato in concorso alla 77ª Mostra di Venezia e candidato all’Oscar come miglior film internazionale per la Bosnia ed Erzegovina, il film si distingue anche per la sua scelta registica coraggiosa. Il film non mostra mai la violenza direttamente. Tutto avviene fuori campo. È proprio questo silenzio a rendere l’immersione dello spettatore più dinamico.
Preparation to be together for an unknown period of time (2020), Lili Horvát
Márta (Natasa Stork) è una neurochirurga ungherese, affermata, rispettata, con una carriera solida negli Stati Uniti. Eppure un incontro cambia tutto. Decide di lasciare la sua vita per tornare a Budapest con il fine di inseguire l’amore della sua vita. Quando finalmente lo ritrova, lui le dichiara di non averla mai vista prima. E lì si apre un baratro.
L’opera, definita da molti un “dramma psicologico noir”, è stata presentato alle Giornate degli Autori della 77ª Mostra di Venezia. La scelta ce si cela dietro la regista, Lili Horvát, di fare della protagonista una neurochirurga non è affatto casuale. Márta conosce bene il funzionamento della mente, lo analizza, lo domina, ci lavora costantemente. Ma qui si trova davanti all’unica cosa che la scienza non può spiegare: l’amore.
Il confine tra realtà e immaginazione diventa labile. È tutto vero? O è la mente di Márta che le sta giocando un brutto scherzo? Preparation to be together for an unknown period of timeci accompagna dunque all’interno di quella sensazione di smarrimento che tutti, almeno una volta nella vita, abbiamo provato.
L’uomo che vendette la sua pelle (2020), Kaouther Ben Hania
Ci spostiamo in Tunisia, dove con questo film, Kaouther Ben Hania diventa la prima regista tunisina candidata all’Oscar per il miglior film internazionale. L’opera, ispirata all’opera d’arte moderna Tim (2006), realizzata dall’artista Wim Delvoye ,ha debuttato nella sezione Orizzonti alla 77ª Mostra di Venezia.
L’uomo che vendette la sua pelle: Sam esposto come un’opera d’arte
Il protagonista in questo caso è Sam Ali (Yahya Mahayni), un giovane rifugiato siriano che fugge in Libano dopo essere stato separato dall’amore della sua vita. Il suo obbiettivo diventa l’ottenimento del visto per poter viaggiare liberamente in Europa. Ma per ottenerlo deve accetta di farsi tatuare la schiena da un famoso artista contemporaneo. Da quel momento il suo corpo diventa un’opera d’arte. Un’opera, sì, ma anche una merce.
L’uomo che vendette la sua pelle è un’allegoria sulla mercificazione dei corpi e sulla perdita della propria autonomia. Anche se il protagonista è un uomo, la regista riesce comunque a connettere il tema a quello della lotta femminile. La questione che viene rappresentata è similare: chi controlla il corpo altrui, ne controlla anche libertà.
Babyteeth: tutti i colori di Milla (2019), Shannon Murphy
Milla Finlay (Eliza Scanlen) ha sedici anni, un’età in cui bisognerebbe avere il futuro davanti. Ma per lei il futuro sembra già scritto: una malattia terminale che la costringe a fare i conti con il tempo. Inaspettatamente, l’unica scintilla di vita arriva da Moses (Toby Wallace), un ragazzo di ventitré anni, uno spacciatore problematico. L’incontro sembra dunque fonte di felicità. Ma per i genitori di Milla, la relazione è un incubo. Eppure, proprio quella connessione che li spaventa diventa l’unica ancora di salvezza per la figlia.
La narrazione si fraziona in brevi capitoli, ciascuno introdotto da un titolo che anticipa ciò che sta per accadere. Ma l’opera non giudica, non cerca di incasellare nessuno. Tutti i personaggi vengono mostrati per quello che sono: con le loro imperfezioni, contraddizioni, paure. Nessuno è solo buono o cattivo.
Babyteeth segna il debutto alla regia della australiana Shannon Murphy, che ha visto la presentazione concorrendo alla 76ª Mostra del Cinema di Venezia. Il successo non si limita al festival, difatti Variety l’ha inserita tra i “10 directors to watch” del 2020. Il titolo è una metafora bellissima: i “denti da latte” che resistono alla caduta. Come Milla, che si aggrappa con forza alla sua innocenza ed a quei piccoli frammenti di felicità che riesce ancora a trovare.
Il paradiso del pavone (2021), Laura Bispuri
Con Il paradiso del pavone, Laura Bispuri ci porta dentro una storia che sembra semplice, ma non lo è affatto. L’intera opera cinematografica si svolge all’interno di una casa al mare. Tutta in un’unica location, la quale diventa un microcosmo di dinamiche familiari, segreti e tensioni.
Il motivo di riunione è il festeggiamento di compleanno della matriarca Nena (Dominique Sanda). Tutto sembra stabile, quasi sospeso. Ma, l’arrivo di un pavone e di una colomba sconvolge gli equilibri. Due animali che nell’immaginario collettivo richiamano simboli religiosi, che qui diventano catalizzatori di riflessioni su sentimenti taciuti e verità mai pronunciate.
La forza del film sta proprio qui: ogni personaggio viene costretto a confrontarsi con la propria intimità, le proprie paure, il proprio modo di amare. È un racconto profondamente femminile, dove i personaggi maschili restano sullo sfondo, definiti soprattutto in relazione alle donne. Un’inversione dei ruoli tradizionali che Bispuri costruisce con delicatezza, senza mai spingerla troppo. Il risultato è un’opera che ci porta a interrogare sui legami familiari e su tutto quello che decidiamo di non dichiarare.
Allegoria cittadina (2024), Alice Rohrwacher e JR
Un cortometraggio delicato, sognante, che unisce la poesia di Alice Rohrwacher alla visione di JR. La storia è raccontata attraverso lo sguardo del piccolo Jay (Naïm El Kaldaoui), un bambino di sette anni che si perde tra le strade di Parigi mentre sua madre, ballerina, sta sostenendo un’audizione. Rohrwacher, tra le voci più acclamate del cinema italiano contemporaneo, ci regala ancora una volta il suo realismo magico, fondendo immagini, memoria e filosofia. Non è un caso che il cortometraggio sia stato presentato alla 81ª Mostra del Cinema di Venezia.
Aprire lo sguardo per scoprire nuovamente la realtà
“Cosa succederebbe se riuscissimo tutti insieme a volgerci verso l’uscita della caverna? Forse non basta affermare che le immagini sono illusioni fintanto che le catene che ci legano sono reali.”
La domanda, posta dalla regista, diventa così il cuore del film. Allegoria cittadina è una rivisitazione contemporanea della Caverna di Platone, ma trasportata in una metropoli viva. Non è un esercizio intellettuale, ma un invito a guardare oltre le immagini, oltre l’illusione, verso una forma di liberazione collettiva.
Life is a competition, but I am winning (2023), Julia Fuhr Mann
Chiudiamo con un documentario ibrido che rompe le regole. La registaJulia Fuhr Mann segue un gruppo di atleti queer, trans e intersessuali che sfidano le norme di genere nello sport agonistico. Tra loro ci sono anche figure reali come la maratoneta trans Amanda Reiter e la corridrice intersessuale Annet Negesa.
Il film illumina le ingiustizie sistemiche e la lotta per l’accettazione, ma lo fa con un linguaggio fresco, quasi sperimentale. Le atlete vengono inserite digitalmente dentro riprese d’archivio delle Olimpiadi, creando un effetto “Zelig-like” che unisce presente e passato. È come se Life is a competition, but I am winning costruisse una solidarietà storica tra chi è stato escluso e chi continua a lottare ancora oggi.
Julia Fuhr Mann, filosofa e cineasta, co-fondatrice del collettivo “Lust & Krise”, ha un approccio queer-femminista dichiarato. Qui rifiuta l’idea patriarcale di “vittoria” legata a medaglie e riconoscimenti, proponendo invece un’altra forma di trionfo: la creazione di spazi propri. Presentato alla Settimana della Critica dell’80ª Mostra del Cinema di Venezia, il film è un manifesto politico e personale, capace di parlare di sport, identità e libertà in modo diretto e coinvolgente.
L’eredità di uno sguardo plurale
Attraverso queste otto opere, emerge un filo rosso che lega storie, voci e prospettive diversissime tra loro. Nonostante i contesti culturali e le poetiche differenti, c’è una stessa urgenza: restituire spazio a sguardi femminili, marginali.
E la rassegna di MUBI, “All roads lead to the Lido: women at the Venice Film Festival”, non si ferma qui. Propone anche altre opere da recuperare, non ancora disponibili sulla piattaforma:
Omelia Contadina (2020), Alice Rohrwacher e JR
Attenberg (2010), Athina Rachel Tsangari
Zama (2017), Lucrecia Martel
Beau Travail (1999), Claire Denis
Into Paradiso (2010), Paola Randi
Sud Side Stori (2000), Roberta Torre
Opere che, ognuna a modo suo, scardinano prospettive consolidate e conquistano spazi che, per troppo tempo, sono stati negati. Perché il cinema, quando si apre, diventa davvero pluralità di sguardi.