Francois Ozon torna in concorso a Venezia 82 e sceglie di nuovo il bianco e nero come per Frantz (2016), ma questa volta il bianco diventa più luminoso, quasi accecante. Il suo protagonista è un giovane impiegato nell’Algeria del 1938, tra i personaggi più celebri della letteratura di tutti i tempi: Meursault, l’eroe insondabile di Camus nel romanzo L’étranger, molto amato dal regista. A interpretarlo, uno degli attori più promettenti del cinema francese contemporaneo: Benjamin Voisin, già diretto da Ozon nel nostalgico Eté ’85 (2020).
Il mistero di Meursault
Il giovane Meursault vive da solo in un appartamento spoglio e conduce una vita “normale”. Non sappiamo nulla del suo passato. Indossa un vestito elegante e si reca al lavoro, un piccolo ufficio impiegatizio, per chiedere un congedo in seguito al lutto della madre, ricoverata in un ospizio fuori città. L’oste del ristorante dove mangia tutti i giorni gli porge una fascia nera da indossare in segno di lutto. Da quel momento è segnato: sua madre è morta e lui deve farsi carico del dolore. Ma la sua strana indifferenza di fronte all’accaduto inizia a insospettire lo spettatore. Non si scompone e sembra eseguire tutti i compiti che il ruolo di figlio gli impone in modo meccanico.
Anche la purezza della città in cui vive, tutto quel bianco con cui il regista decide di dipingerla, nasconde delle crepe. I francesi discriminano gli arabi. A margine dell’inquadratura compare un cartello che vieta l’ingresso a chi non è francese. Dalla sua finestra Meursault osserva episodi di discriminazione quotidiani e resta a guardare. La morte della madre non lo tocca, come non gli interessano i maltrattamenti da parte dei vicini, quelli del personaggio interpretato da Denis Lavant nei confronti del suo cane, o di Raymond Sintes (Pierre Lottin) verso la sua amante. Meursault è scostante con chiunque incontri, fatta eccezione per Marie (Rebecca Marder).
Un sole accecante
Meursault sembra provare un piacere puro solo per il mare, e in un bagno pubblico ha inizio la sua relazione con Marie. Il tempo del racconto è molto circoscritto, tutto accade in pochi giorni. L’amore fa dimenticare la morte, che però torna con più forza. La spiaggia è il luogo in cui Meursault compirà il suo delitto, l’uccisione di un arabo. Questo il nodo da sciogliere, il cuore della vicenda. Tutto ciò che accade prima è solo un preludio. L’ultimo atto, il processo, a cui segue la condanna a morte, rimescola le carte. Nel piccolo tribunale dove Meursault siede al banco degli imputati, gli vengono poste tutte quelle domande di cui anche lo spettatore vorrebbe ascoltare le risposte. Perchè non ha versato una lacrima per la perdita di sua madre? Cosa l’ha spinto a sparare quattro colpi di pistola e a uccidere un uomo? É stato il sole, risponde Meursault all’ultima domanda.
Meursault è un uomo che vive in un buio emotivo, una voragine interiore insondabile. Non è un buon amico, un buon amante o un buon figlio. É un uomo come tanti con tutte le sue contraddizioni, estraneo a sé stesso. Il suo buio lo rende sensibile alla luce. La sfera luminosa della sua lampada lo acceca come il sole torbido sulla spiaggia quando si riflette sulla lama del coltello dell’uomo a cui sta per sparare. L’unico momento in cui manifesta i suoi sentimenti apertamente è verso l’epilogo del film, durante il colloquio con un sacerdote, che cerca di aprire un varco luminoso dentro di lui; invano, o forse no. Solo in punto di morte ritrova il mondo dei suoi ricordi, l’immagine di sua madre, ma anche questo piccolo risveglio emotivo è destinato a spegnersi. Ricordare, per Meursault è solo l’ennesimo escamotage trovato per ammazzare il tempo.