“Volevo catturare tutta la bellezza che vedevo intorno e che mi sembrava la cosa più preziosa”
Vedere Journey into Gaza di Piero Usberti è un po’ come entrare in un romanzo di viaggio che non ti aspetti: non ci sono narratori imponenti, né grandi proclami politici, eppure il film ti prende e non ti lascia più. La realtà ti scivola sotto pelle e allo stesso tempo ti fa sentire che ogni fotogramma è un piccolo miracolo. Ci sono volti, occhi, tramonti dorati e droni che ronzano come presenze spettrali, a tratti quasi poetiche. Il regista gira nel 2018, ma lo sguardo del film è già memoria. Molti luoghi e persone che incontriamo non ci sono più, e questo genera un cortocircuito emozionale: il cinema che diventa archivio, il documentario che si fa poesia. E sì, la polvere delle strade è reale, ma sembra quasi scritta da Italo Calvino, che di città invisibili sapeva raccontarne l’anima.
Diretto da Piero Usberti, il documentario sarà proiettato il 6 settembre alla 24esima edizione dell’Euganea Film Festival.

Volti che parlano
Il documentario è stato girato nel 2018, un anno che oggi appare come un passato molto lontano. Il regista, Piero Usberti, non indulge al sensazionalismo; il suo sguardo è intimo, attento alle sfumature, alle pause, ai silenzi che parlano più di qualsiasi esplosione. La sua macchina da presa scivola tra le strade, tra i volti e gli scorci di Gaza come un osservatore discreto ma profondamente coinvolto, capace di trasformare la cronaca in esperienza emotiva.
Journey into Gaza somiglia più a un romanzo di viaggio che a un reportage militare: la città non è solo teatro di conflitto, ma protagonista viva, con i suoi odori, le sue luci e le ombre dei palazzi colpiti. Non ci sono esplosioni in primo piano, e le sirene lontane si sentono appena. Ci sono invece tramonti dorati che filtrano tra i palazzi danneggiati, visi di giovani come Sara, Mohanad e Jumana che cercano di costruire il loro futuro in un contesto che sembra negarlo a ogni passo. Sono veri attori, anche se non recitano: una quotidianità la loro fatta di piccole cose e gesti semplici: camminano, ridono, si arrabbiano, studiano. È il cinema che si fa vita. Non bisogna mostrare la guerra, bisogna farla sentire, anche tra le pieghe di un gesto quotidiano. E Usberti ci riesce: la macchina da presa è discreta, poetica, e la luce sembra seguire una sceneggiatura invisibile. Il regista non ci racconta Gaza come una vittima, ma come una città viva, complessa, contraddittoria.
La voce narrante del regista sembra prendere lo spettatore per mano e condurlo in quello che è a tutti gli effetti un viaggio. Un docuemntario che denuncia la mancanza di libertà per i residenti di Gaza, sia sotto il controllo di Hamas che di Israele.

La potenza della fotografia e dei silenzi
Il documentario colpisce soprattutto per la fotografia. La luce dorata dei tramonti filtra tra le case danneggiate, trasformando la devastazione in immagini di struggente bellezza. Il montaggio è essenziale, asciutto. I droni, sempre presenti, non sono semplici effetti sonori ma un contrappunto costante alla normalità sospesa. Silenzi che parlano, rumori che interrogano, resistenza che vibra. Ogni scelta sembra voler restituire allo spettatore la sensazione di essere lì, camminare tra quelle strade, respirare quell’aria pesante e dolce allo stesso tempo. Ed è proprio qui che il documentario diventa politico senza dichiararlo: l’atto stesso di mostrare, di dare visibilità, di restituire umanità, è un gesto di forte resistenza.
Ma ciò che rende Journey into Gaza davvero memorabile è il suo coraggio morale: Piero Usberti cerca di far capire, di far sentire, di restituire dignità a chi vive sotto assedio. Non c’è retorica, ma una chiarezza di sguardo che costringe lo spettatore a mettersi di fronte all’umanità delle persone, alla complessità della storia e alla fragilità della memoria. Il documentario diventa un film necessario: non per conoscere Gaza, ma per riconoscerla come città viva, popolata da persone che amano, soffrono, sperano e resistono. È un film che fa pensare, che ti lascia sospeso tra la bellezza di un volto illuminato dalla luce e la consapevolezza del dramma circostante. Il regista non giudica, non spiega tutto, non semplifica: ci obbliga a confrontarci con la complessità, con la fragilità della vita e della memoria.
E qui sta la grandezza del film: la capacità di trasformare il documentario in esperienza cinematografica pura, in viaggio emozionale ed etico. Non ti racconta Gaza, ti fa sentire Gaza. Journey into Gaza ci lascia con un dubbio sospeso: se guardassimo le città e le persone con più attenzione, se ci prendessimo il tempo di sentire, forse il mondo sarebbe meno indifferente. Usberti non ci dà risposte, ci regala lo spazio per porre le domande. E questo, in tempi come questi, è già un atto di eroismo cinematografico.
Journey into Gaza è un film che non si dimentica, ti resta addosso come la polvere di quelle strade, come la luce di un tramonto dorato che continua a brillare anche nei luoghi più bui.
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