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TERRA LENTA FILM FESTIVAL

TerraLenta e ‘Megacicli’: due visioni che si incontrano tra cinema e comunità

Intervista a Fabrizio Lioy, direttore artistico del TerraLenta Film Fest, e Davide Barletti, regista del film fuori concorso Megacicli

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Il Terra Lenta Film Fest è un festival cinematografico internazionale dedicato all’ambiente e al territorio. Un luogo dove il documentario d’autore si intreccia con l’impegno civile, offrendo uno spazio di riflessione sul cambiamento climatico, la giustizia ambientale, la biodiversità e i paesaggi in mutazione. Ma più di tutto, Terra Lenta è una soglia: un punto d’accesso tra mondi lenti, marginali, spesso invisibili, e un pubblico in cerca di senso.

Tra le opere presentate quest’anno, Megacicli si distingue non solo per la sua forma ibrida – a metà tra il saggio poetico e il racconto documentario – ma anche per il legame profondo con il festival stesso. Diretto da Davide Barletti, regista fondatore del collettivo Fluid Produzioni, e realizzato in collaborazione con l’associazione Fuorisentiero, Megacicli segue l’antico rito della transumanza in Basilicata, accompagnato dalle frequenze di un radioamatore in cerca di contatto nell’etere, mentre il mondo sembra sprofondare nell’abisso.

Abbiamo incontrato Barletti e Fabrizio Lioy, direttore artistico del festival e coproduttore del film, per un dialogo a due voci che esplora il senso del gesto, l’eco dei cicli e l’urgenza di non dimenticare.

Dall’incontro al film, come ha inizio il processo creativo

Il documentario nasce spesso da un incontro, da un legame che precede l’idea del film. Cosa ha generato Megacicli, e cosa vuole raccontare?

Fabrizio Lioy: Megacicli è nato da poco, è un lavoro ancora in divenire. Un test, più che un film finito. Un testo, se vogliamo, fatto di emozioni, impressioni e tentativi di sintesi che forse troveranno una forma più compiuta in futuro. Ma le sue radici risalgono a tre anni fa, quando invitammo Davide a una nostra rassegna di cinema all’aperto, dedicata ai temi ambientali. Proiettammo il suo film: “Il tempo dei giganti”, lo ospitammo, condividemmo con lui le giornate e la nostra vita.
Noi non siamo un’associazione che si limita a fare cultura: viviamo davvero nel territorio, in un rifugio, in un contesto rurale dove la transumanza è pratica quotidiana. Davide ha percepito questa realtà viva, concreta. È rimasto con noi, è tornato, ha partecipato a una delle nostre transumanze invernali. Lì, con uno sguardo rispettoso, ha iniziato a registrare. Quel materiale è rimasto fermo per anni, fino a quando, con la nascita del festival, abbiamo colto l’occasione per trasformarlo in un gesto condiviso. Megacicli è figlio di questa relazione.

Davide Barletti: L’idea è nata quasi per caso, ho incontrato Fabrizio e scoperto la dedizione di Fuorisentiero per la transumanza e le pratiche pastorali. Ho intuito subito la forza simbolica di un rito antico, ancora vivo, e ho deciso di documentarlo. Ho coinvolto il direttore della fotografia Cosimo Pastore e il musicista sperimentale Antonio Giulio Galeandro, la cui ricerca sul mondo delle onde corte mi ha suggerito una forma ibrida: un cortodocumentario che mixa elementi realistici, suoni catturati “dall’etere”, e finzione.
L’idea era raccontare la transumanza per un lungometraggio ancora in cantiere. Ma quando è nata la prima edizione di TerraLenta, abbiamo pensato di restituire al pubblico un gesto più immediato, un cortometraggio sperimentale, una prima visione. Così è nato Megacicli, come una riflessione visiva ed emotiva sui cicli naturali e sul rischio che la coesistenza pacifica tra uomo e natura possa interrompersi. Volevamo trasmettere il senso di sacralità della tradizione, ma anche mettere in guardia su un futuro in bilico.

Luoghi e memoria – Che significato ha la transumanza per la Lucania?

Parliamo della transumanza: che cos’è e che significato ha per il territorio lucano? È solo un’antica pratica rurale o qualcosa di più profondo? In che modo questo rito si lega al paesaggio contemporaneo e alle trasformazioni sociali ed ecologiche che viviamo?

Fabrizio Lioy: La transumanza è la storia dell’uomo su queste terre. È un movimento ciclico che unisce paesaggio, animali e esseri umani. I tratturi, le vie antiche, non sono semplici percorsi per le mandrie, ma memorie viventi. Sono quei sentieri su cui si è mossa la storia stessa, dove l’evoluzione delle comunità ha preso forma. Non a caso, nel 2019 l’UNESCO ha riconosciuto queste rotte come patrimonio dell’umanità, sottolineandone il legame profondo con le radici e la memoria collettiva.
In Basilicata, questa pratica assume un valore ancora più forte: qui la transumanza è una delle poche autentiche e lunghe migrazioni a piedi che attraversano quei vecchi luoghi ormai trasformati in strade asfaltate. Non usiamo camion né deviamo per comodità. Attraversiamo la città di Potenza, le zone industriali, i centri commerciali, ignorando quasi l’urbanizzazione moderna per ritrovare invece le tracce di quei mondi originari, delle toponomastiche che raccontano chi siamo e da dove veniamo.
Tuttavia, mentre questo riconoscimento cresce, aumenta anche il rischio che la transumanza diventi una moda, una retorica. Spesso diventa tema politico, un modo per parlare del territorio quando scarseggiano altre idee. Come associazione, cerchiamo di proporre nuove visioni e riflessioni sull’ambiente. La nostra sfida è mantenerla viva senza svuotarla, difendendone il senso profondo: un gesto che racconta, camminando, un legame autentico e profondo con la terra.

Davide Barletti: È un rito, una forma di resistenza. Non è qualcosa che si guarda da fuori, ma qualcosa che accade nonostante tutto: il caldo, le strade asfaltate, le città che si espandono.

È lì, ogni anno. E dà l’idea che non tutto si sia rotto, che ci siano ancora cicli che funzionano. Nel film, questo gesto dialoga con un altro ciclo, quello delle onde corte: segnali lanciati nel vuoto. C’è una domanda di fondo: qual è la nostra destinazione finale? È come se la transumanza chiedesse al mondo se siamo ancora capaci di ascoltare.

L’intreccio tra ritualità e immagini simboliche

Il film è ricco di immagini profonde e suggestive. Si intrecciano due cicli: quello della transumanza e quello delle onde radio, segnali lanciati nell’etere. Quale significato assume questo dialogo tra il corpo che cammina e il segnale invisibile che attraversa lo spazio? Qual è la scena che trovate più significativa e cosa simboleggia per voi?

Fabrizio Lioy: Per me la scena che più mi rappresenta, anche a livello personale, è quella in cui siamo seduti io e Gerardo, davanti al camino acceso, durante una pausa del viaggio. È un momento semplice, quasi domestico: il fuoco che scoppietta, i piedi appoggiati sulla legna, due amici che si ritrovano nel silenzio della notte, senza bisogno di troppe parole. Quando ho rivisto quella scena sullo schermo mi sono emozionato, perché ho riconosciuto un frammento autentico della mia vita, qualcosa che spesso vivi senza rendertene conto.
È stato strano — e potente — guardare me stesso da fuori. Ho visto non solo la fatica, ma anche la complicità, la fiducia che c’è tra noi. Quel legame fraterno che nasce nei giorni passati insieme, nei gesti quotidiani: nel dividere il pane, nel sistemare il fieno, nel decidere il passo della mandria. Rivedere tutto questo filtrato dall’occhio della macchina da presa mi ha colpito profondamente.
Un’altra scena a cui sono molto legato è quella in cui Gerardo sale sul cofano del fuoristrada, mentre ci muoviamo lungo il percorso. Quello che a un occhio esterno può sembrare un momento “da cinema” — quasi costruito — per noi è una normalità assoluta. Lo abbiamo fatto mille volte, per risparmiare energie, per praticità. Eppure vederlo lì, filmato, in quel contesto, gli ha dato un significato ulteriore. Rende visibile qualcosa che per noi è spontaneo ma che, nella narrazione del film, diventa simbolico: un gesto di fiducia, di adattamento, di equilibrio tra tradizione e necessità.

Davide Barletti: Una delle scene che più mi ha colpito, e che ritengo centrale per tutto il significato di Megacicli, è quella in cui il pastore più anziano — il padre di Gerardo — si prepara per la partenza legando con grande attenzione il pesante collare alla mucca capobranco, quella che guida il resto della mandria durante il cammino. È un gesto antico, preciso, fatto con fatica e con una delicatezza che raramente si vede nel mondo contemporaneo.
Quel momento avviene nel bosco, tra foglie cadute e luce bassa, immersi in un silenzio quasi sacro. Gli altri uomini attorno si muovono con rispetto, nessuno parla troppo, si sente solo il rumore dei passi sulle foglie e del legno contro il metallo della campana. È una scena che racconta tutto: la pazienza, l’esperienza tramandata, la fiducia tra uomo e animale. Ma soprattutto mostra la continuità di un rito antico che ancora oggi si compie con gli stessi gesti di secoli fa, senza scenografie né folklore.

E poi c’è la scena finale, quella in cui il giovane ragazzo dall’altra parte del mondo — che non vediamo mai chiaramente, come se fosse una proiezione o un’eco lontano — capta i suoni attraverso le onde radio. Quel momento, sospeso tra realtà e suggestione, mi ha sempre emozionato. È come se si chiudesse un cerchio: un segnale partito da una montagna lucana attraversa l’etere e arriva a un bambino ignoto, creando un filo invisibile tra passato, presente e futuro. Per me è un’immagine fortemente simbolica: ci ricorda che ogni gesto, anche il più umile, ha una risonanza che può andare molto oltre il luogo in cui nasce.

Riflessioni e consapevolezze desiderate

Che tipo di riflessione, emozione o ispirazione sperate di accendere nel pubblico dopo la visione di questo film?

Fabrizio Lioy: Quello che vorrei davvero è che lo spettatore riesca a vedere oltre la superficie: non solo il paesaggio, le mucche, il cammino — ma le persone. Mi piacerebbe che da questo documentario emergesse un’immagine diversa del pastore, lontana dagli stereotipi. Gerardo, e tanti altri come lui, sono giovani che fanno scelte radicali, consapevoli, spesso incomprese. C’è cultura nel loro lavoro. C’è visione.
Il ritorno alla terra non è una fuga dal presente, ma una forma di resistenza. Vorrei che chi guarda Megacicli comprendesse che non si tratta di nostalgia, ma di tenere vivo un equilibrio fragile tra memoria e modernità. Un gesto come la transumanza non è folklore: è un atto politico, un modo di abitare il mondo.
Se anche solo una persona, dopo la visione, si ferma a riflettere sul valore di quel passo lento, di quella fatica quotidiana, o magari decide di approfondire, di fare domande, di cambiare sguardo su un mondo che sembrava distante, allora questo film avrà avuto un senso.
Infine, vorrei che Megacicli servisse anche da stimolo per ripensare al modo in cui raccontiamo il territorio. Spesso si parla di ambiente, ruralità, comunità, ma lo si fa con distacco o solo quando è utile. Questo è un invito a fare attenzione, a restare connessi ai luoghi reali, a non dimenticare che ogni cammino, per quanto piccolo, lascia una traccia.

Davide Barletti: La speranza più grande è che chi guarda Megacicli riesca a sentire, anche solo per un istante, il ritmo più lento e profondo che ancora sopravvive in alcuni luoghi, in alcune vite. Vorrei che il pubblico portasse con sé la consapevolezza che esistono ancora gesti autentici, ciclici, che si ripetono ogni anno senza clamore, lontani dalle logiche dell’efficienza o del consumo.
Megacicli non è solo un film sulla transumanza, ma una riflessione sul tempo. Su quanto siamo disabituati ad ascoltarlo, a viverlo in sintonia con i suoi ritmi naturali. Vorrei che, usciti dalla visione, gli spettatori si sentissero toccati da questa coesistenza possibile tra tradizione e futuro, uomo e natura, materiale e invisibile.
Il radiomatore che invia segnali nell’etere è un personaggio simbolico: metafora di una richiesta di contatto, forse anche di salvezza. Chi siamo, dove stiamo andando, siamo ancora capaci di capirlo? È una domanda che attraversa tutto il film senza una risposta definitiva. Se rimane sospesa nello spettatore, anche solo come dubbio, il film avrà raggiunto il suo scopo.
Vorrei che Megacicli lasciasse una sensazione sottile, come un’eco, un suono lontano che vibra anche dopo i titoli di coda. Quel ciclo che raccontiamo riguarda tutti noi: il ciclo della memoria, del legame con la terra, della possibilità di risintonizzarci con un mondo che sembra essersi dimenticato di ascoltare.

Megacicli come opera inaugurale del TerraLenta Film Fest

Un’ultima domanda: quanto è stato significativo per voi presentare un’opera come Megacicli proprio all’interno del Festival Terra Lenta? Possiamo considerarlo un battesimo simbolico, un’apertura che incarna lo spirito e le intenzioni future del festival?

Fabrizio Lioy: È stato molto significativo, per almeno due motivi.
Il primo riguarda il fatto che Megacicli è anche una nostra produzione, nata da una collaborazione tra l’associazione Fuorisentiero e Fluid Produzioni. Non essendo una casa di produzione tradizionale, ma una realtà fluida e multidisciplinare, per noi è stato importante dimostrare che è possibile creare qualcosa di autentico e coerente anche fuori dai classici schemi del cinema ambientale. Amiamo muoverci tra linguaggi diversi, e questo progetto ci ha permesso di farlo parlando di ambiente in modo non convenzionale.
Il secondo motivo è più simbolico, ma altrettanto importante. Fin dall’inizio, immaginando Terra Lenta, ci siamo dati un obiettivo chiaro: non volevamo un festival “di vetrina”, una semplice rassegna di film, ma un luogo vivo, capace di generare cose concrete e durature. Sognavamo un festival che potesse diventare anche produttore di contenuti, promotore di narrazioni radicate nei territori e nelle urgenze contemporanee. Megacicli è stato il primo passo in quella direzione. Un piccolo esperimento riuscito, che speriamo di ripetere e far crescere negli anni a venire.

Davide Barletti: Megacicli è un progetto realizzato con pochissimi mezzi, in modo estremamente indipendente, quasi artigianale. Una produzione “ultra dal basso”, se vogliamo usare un termine che rende bene l’idea: senza budget, ma con un forte investimento emotivo, umano e creativo.
In realtà è nato quasi per caso, o meglio per affetto: come omaggio al pubblico del festival, ma anche alle persone che in questi anni ci hanno accolto e accompagnato lungo il cammino. Non era pensato come un film finito, compiuto, ma come un “testo aperto”, un primo atto che potrebbe evolversi in un lavoro più ampio. Ha già un’identità forte e la dignità di essere condiviso, perché conserva qualcosa di autentico.
Per questo vogliamo farlo circolare: nei festival ambientali, certo, ma anche in quelli legati all’antropologia, ai paesaggi culturali, alle narrazioni resistenti.
Arrivare a presentarlo a Terra Lenta è stato, a tutti gli effetti, il suo naturale sbocco. Era giusto che la prima uscita avvenisse in questo contesto, davanti a un pubblico che ne comprende profondamente codici, radici e contraddizioni.

 

Vi invitiamo guardando il trailer ad immergervi nell’universo suggestivo di “Megacicli”

TerraLenta e Megacicli: due visioni che si incontrano tra cinema e comunità

  • Anno: 2025