Cos’è che inseguiamo quando diciamo di volere l’amore? È il calore di un abbraccio o la sicurezza di uno status? Quante volte ci innamoriamo di ciò che l’altro rappresenta piuttosto che di chi è davvero? Material Love (titolo originale Materialists), ci mette dinanzi ad una scomoda domanda: vogliamo amare o solo aumentare il nostro valore?
E se l’amore fosse ormai solo un’altra valuta sociale, misurata in bellezza, successo, oppure come dice il titolo stesso “materialità”? In una Manhattan scintillante, Céline Song, regista candidata all’Oscar per Past Lives, racconta una storia intima, dove i personaggi inseguono il sogno di trovare l’anima gemella.
Amore o benessere? La scelta che non è amore
Lucy (Dakota Johnson) è una matchmaker che accoppia persone come se stesse componendo portafogli di investimento. Difatti lo descrive un lavoro come un altro, come se stesse facendo affari con un obitorio. Non cerca la chimica, bensì la somma perfetta tra status e desiderio. Harry (Pedro Pascal) è il candidato ideale: ricco, impeccabile, l’uomo “che tutti dovrebbero volere”. Il cosiddetto “candidato unicorno”, rari, che sembrano troppo perfetti per essere veri. John (Chris Evans) è l’ex, l’errore, l’unico che smonta la sua corazza. L’unico con cui Lucy riesce ad essere fragile. Song costruisce una tensione sottile: l’amore non si sceglie, avviene. Scegliere chi rispetta i canoni è facile, mentre innamorarsi significa perdere il controllo. E noi, come spettatori, restiamo a chiederci: quante volte abbiamo davvero amato e quante volte abbiamo solo scelto ciò che ci faceva sembrare migliori?

Il valore: la moneta invisibile
Quante volte abbiamo detto “non mi merita, perché io valgo di più”? Cosa significa davvero avere valore e chi lo determina? Lucy sostiene di non avere talento oltre al suo lavoro, mentre Harry, l’apparente “10 e lode”, ha ottenuto il suo valore solamente attraverso i soldi, partendo dal fatto che egli lavora per l’azienda della madre. Un valore ereditato dunque, al contrario della protagonista.
“Il matrimonio accresce il mio valore”
dice una cliente di Lucy all’inizio. È lì che comprendiamo che il film sia anche una dissezione sociale. È un gioco crudele che tutti conosciamo: quanti like valgo? Quanto la persona accanto a me mi rende più visibile, desiderabile, importante? Song non condanna, ma costringe a guardarsi. E il riflesso non è comodo.
La fragilità come atto rivoluzionario
In un mondo dove tutto è performance, la fragilità è l’unica forma di verità. Lucy può combinare coppie perfette per chiunque, ma non riesce a mostrarsi imperfetta davanti a nessuno. Solo con John, il suo ex che non le dà sicurezza né status, riesce a crollare.
“Essere innamorati è mostrarsi fragili senza paura”
ha sostenuto Song in un’intervista, ed è forse questa la chiave del film. L’amore, quello vero, non è mai materiale: è il momento in cui la maschera cade, e accetti di non avere valore agli occhi del mondo pur di averne agli occhi di qualcuno. John difatti non sa perché prova dei sentimenti per Lucy. nessun calcolo matematico, solamente amore.

Il culto dell’immagine
Il film ricorda l’ossessione del nostro aspetto di Reality+ di Coralie Fargeat: lì, un chip nel cervello permetteva di vedere sé stessi e gli altri come la versione perfetta che sogniamo. Una società ipnotica, che vede la propria apparenza come ragione di vita. Dieci anni prima dall’icnonico film The Substance. Material Love prende quella stessa mania riguardo alla bellezza esteriore e la cala nella sfera intima: non serve un chip, perché siamo già programmati. Lucy costruisce relazioni “adatte”, come Vincent e Stella indossano corpi virtuali, in grado di attirare ciò che vogliono. È lo stesso inferno elegante: una società che ci dice che valiamo solo se siamo belli, perfetti, vincenti. E che ci spinge a desiderare non l’amore, ma il riflesso socialmente approvato di esso.
È la stessa matematica che usiamo ogni giorno, anche inconsciamente, quando scegliamo una foto da postare, quando valutiamo un match su un’app di incontri. Song non demonizza, non punta il dito, bensì ci mette dinanzi allo specchio per lasciarci con la domanda più difficile. Siamo ancora capaci di vedere l’amore senza filtri, o sappiamo solo scegliere la versione più condivisibile?
La regia: quando il ritmo diventa emozione
Molto di Material Love non passa solo dalle parole. La regia lavora sulle distanze: corpi ripresi dietro vetri, riflessi, campi lunghi che trasformano Manhattan in un labirinto emotivo. Ogni movimento di macchina ha un ritmo preciso, quasi respiratorio: accelera quando i personaggi recitano un ruolo, rallenta quando lasciano intravedere la fragilità.
Non è solo estetica: è una scrittura visiva che commenta la storia. Le stanze minimaliste di Harry, ordinate fino alla sterilità, raccontano un uomo senza identità propria. Il caos caldo della casa di John, invece, è l’opposto: imperfetto, ma vivo. Con Shabier Kirchner alla fotografia, Song crea un’intimità che Past Lives aveva già reso iconica, ma qui più tagliente, più urbana.

Pedro Pascal e l’uomo “perfetto” che non esiste
Harry è il cosiddetto “candidato unicorno”, la fantasia di ogni matchmaker: soldi, status, sicurezza. Ma Pedro Pascal, in diverse interviste, ha ammesso di essersi sentito “scomodo” nel ruolo.
“È stata la volta in cui mi sono sentito più vecchio che mai. Era una sensazione così spaventosa e ingannevole pensare di poter interpretare qualcuno che era il fiore all’occhiello di Manhattan.”
Ed è proprio questo disagio che rende il personaggio vivo. Harry non è un uomo: è un’idea di uomo. E il film ci ricorda che vivere secondo un’immagine è una violenza sottile, anche quando sei “dalla parte giusta” del potere. La sua perfezione è un guscio: dietro c’è un uomo che non ha mai scelto davvero, che vive di un valore ereditato. E Pascal lo lascia filtrare nei micro-gesti: negli sguardi persi, nelle frasi sospese.
Past Lives e Material Love: due lati della stessa domanda
Se Past Lives era una ballata sul destino e la perdita, Material Love è un’analisi chirurgica del presente. Entrambi i film condividono la stessa delicatezza nei dialoghi:
“I film che amo sono quelli in cui una conversazione ti cambia”
ha affermato Song e la stessa fotografia intima di Kirchner. Ma se nel primo l’amore era un ponte tra tempi e vite, qui è una merce tra mani tremanti. È questo che fa male: ci costringe a chiederci se ciò che abbiamo chiamato amore sia mai stato davvero tale.