Già impostasi alla critica internazionale nel 2017 con il lungometraggio Revenge, presentato al Toronto Film Festival e al Sundance, Coralie Fargeat con Reality+ (2014), disponibile su MUBI, precorre tematiche divisive, cortocircuiti morali, provocazioni avanguardistiche che poi diromperanno in The Substance, opera in grado, dopo la calorosa accoglienza a Cannes 2024 e il successo al botteghino, di scuotere la sensibilità di pubblico con un’estetica non originale, ma di rivisitazione dei classici contemporanei nella loro storicizzata adattabilità (da Cronenberg a Kubrick, da Lynch a De Palma), nella declinazione di una fantascienza di body horror che appare più prossima che remota.
Se in The Substance Demi Moore e Margaret Qualley interpretano lo stesso personaggio, quello di una ex star televisiva al tramonto, che grazie a una fiala miracolosa e criptica riesce a invertire mezza età e giovinezza con spudoratezza famelica ed esiti irreversibili, in Reality+ la regista attua già lo schema drammaturgico di una metamorfosi nelle spire capitalistiche del tempo che impone scadenze e detta limiti, qui però non soccombente alla solitudine più individualista come nel film più recente, perché il sentimento e l’alterità di sguardo squarciano la tecnologia onnivora e onnipotente, nella forza affettiva, seppur faticosa e succube del caso, dell’umano.
Il più ordinario degli intrecci: boy meets girl
Vincent (Vincent Colombe), giovane ordinario e non avvenente, ricorre, come altri utenti, a un programma futuristico di mutazione fisica, una tecnologia sofisticata che permette di assumere le sembianze – corpo e volto – che si preferiscono, attingendo a un catalogo virtuale di modelli ineccepibili. Il marchio di fabbrica di questo servizio è un segno sul collo. Una deformazione estetica da sogno, afferrabile e calata nel reale più quotidiano, con una demarcazione di utilizzo: il suo funzionamento vige solo per dodici ore al giorno, terminate le quali si ritorna alla conformazione originale e naturale. Quando Vincent si innamora, ricambiato, di una bellissima ragazza interpretata da Vanessa Hessler, anche lei sottoposta allo stesso trattamento, gli ingranaggi del tempo non collimano, la paura del rifiuto, o peggio della repulsione, scolorano il mito della perfezione in un incubo. Ma forse l’amore incondizionato può travalicare i pregiudizi dello sguardo …
L’integrità dell’io nella dittatura della superficie
Nella sua forma embrionale di una poetica obliqua e corrosiva, come banco laboratoriale di un cinema asettico e disturbante, intessuto di forme cinematografiche cristallizzate nell’autorialità canonica dei maestri (che evolverà in The Substance), Reality+ possiede tutta la freschezza di visione dell’opera prima (pur essendo il secondo corto, ma a distanza di ben undici anni da quello d’esordio), lo slancio di alterità in un’originalità che plasma l’immaginario di un genere, quello fantascientifico, convertendolo alle contraddizioni del presente. Come in The Substance, colpisce infatti il lavoro sul profilmico (lo spazio scenico), nella controluce di un futuro sempre più virtuale, eppure così tangibile, come un presente a un passo dalle potenzialità dell’oggi.
Così, nella classicità di una Parigi alla moda tra bistrot, serate all’opera, attici con vista sullo skyline, si inietta la modernità plus (come si evince dal titolo) in cui è fagocitata una gioventù spensierata e schiava di paradigmi estetici apollinei e plastici, nell’effervescenza dello spreco notturno del tempo, nell’ansia di una prestazione dell’apparenza che vede nell’irregolarità della fisicità uno scarto da estirpare. Senza però ancora quell’insistenza sul disgusto, sulla putrescenza, sull’ossessione dell’invecchiamento che in The Substance diventano la forma mentis dell’opera, in una sorprendente incursione finale di ronde amorosa, catartica e carezzevole, nella brezza lieve tra i tetti di Parigi.
Ricomporre amorosi sensi
In un corto dove i piani in soggettiva, soprattutto davanti allo specchio, prevalgono, nell’immedesimazione inconscia e condivisa di un avatar migliore di sé, ecco che Coralie Fargeat sferra alla fine la risoluzione dell’algoritmo estetico in un campo e controcampo non allineato, nelle imprevedibili conseguenze dell’amore, che trionfano su qualsiasi programmazione digitale, standardizzazione visiva e astrattezza relazionale. Senza retorica compiacente e senza il livido cinismo del film più recente, ma ancora nelle maglie di una fiaba (meno maligna e inesorabile) nel solco di Cenerentola (gli incastri impossibili allo scoccare del tempo).
In Reality+ classicità e distopia si amalgamano in una sicura padronanza espressiva per raccontare i tristi e fagocitanti miti distorti della civiltà delle immagini virtuali, dieci anni prima di The Substance, ancora nei paraggi una redenzione possibile, poi affossata dalla regista che oppone nel 2024, con pessimismo debordante e splatter, la piatta vertigine del vuoto e dell’oblio.