Opera prima di Lorenzo Pullega, L’Oro del Reno è un viaggio immaginifico e poetico nella memoria di un fiume dai mille volti. Del film abbiamo parlato con il regista.
Distribuito da Europictures L’oro del Reno è stato prodotto da Mompracem e Rheingold con RAI Cinema.

Lorenzo Pullega e il suo L’oro del Reno
La prima sequenza, quella in cui il primo piano sugli occhi del viaggiatore straniero lascia il posto alla visione del paesaggio circostante, è come se invitasse lo spettatore a guardare in maniera nuova alle cose del mondo per poterne cogliere la magia.
Assolutamente sì. Sono molto contento che tu abbia colto questo aspetto perché effettivamente anche a me è successo così nel senso che molti aspetti de L’oro del Reno li ho scoperti solo dopo averlo fatto. Più che teoriche le scelte del film sono state ispirate dal sentimento, come quella iniziale in cui, in effetti, dal primo piano degli occhi ci allarghiamo al paesaggio e al personaggio che si accinge a guardare quei luoghi con un nuovo sguardo. Guardare un paesaggio canonico riempiendolo con una nuova immaginazione mi sembrava l’inizio perfetto per parlare di tutto il film.
Questo slittamento riguarda lo sguardo, ma prima ancora la mente. L’oro del Reno ci invita innanzitutto a cambiare il nostro modo di sentire adeguando lo sguardo a questa nuova predisposizione.
Proprio così. A questo proposito mi auguro che la forte connotazione del fiume e dei personaggi non impedisca al film di trasmettere lo slittamento di cui parliamo a chiunque perché, come dicevi, si tratta di un invito a guardare con occhi avventurosi quello che ci sta attorno. Restituirlo con il giusto valore equivale a reinventarne le movenze.
Fare cinema
Oltre a raccontare il territorio dal punto di vista umano e geografico L’oro del Reno teorizza anche un modo di fare cinema, come succede nelle battute iniziali in cui, attraverso le parole del regista che si accinge a girare un lungometraggio sul fiume Reno, metti da parte l’approccio programmatico per farti guidare dai sentimenti suscitati dalla perlustrazione di quelle zone. Scegli di perderti come si perdono i personaggi del film per poi vedere cosa succede.
L’idea era quella di essere pronti, aperti e spalancati a quanto poteva succedere. Questo valeva sia in fase di scrittura e di preparazione del film, ma anche durante le riprese perché poi le due cose, il viaggio del regista del film e il mio nello scriverlo e girarlo, in qualche modo combaciano. Anche la scelta di non mostrare il regista, ma di farne solo sentire la voce penso sia significativo di questa apertura per cui effettivamente l’occhio che guarda il film diventa un contenitore da riempire di tutto quello che vede. In un certo senso è come se poi alla fine il ritratto di questa persona che non vedi mai sia costituito da ciò che gli sta intorno.

Mettere in scena il regista, ovverosia il personaggio principale, senza mostrarlo in prima persona, ma solo attraverso la soggettiva del suo sguardo traduce in maniera coerente la premessa de L’oro del Reno facendo di quel nuovo modo di vedere il vero protagonista del film.
Lo è a tutti gli effetti anche se poi a proposito delle cose che ho scoperto dopo aver girato il film ti devo dire che il regista in realtà viene mostrato anche se nella sua versione giovanile. Ero convinto da subito che il nostro non dovesse apparire e credevo di aver tenuto fede a questo proposito fino a quando ho scoperto il contrario. Certo è una cosa che si nota poco perché la scena in cui compare non occupa una posizione centrale, sta di fatto che quel bambino non è altro che l’autoritratto del regista riesumato da un suo ricordo giovanile.
Spunti per altre storie e generi
Nel risalire il Reno fino alla sua foce il film sembra mano a mano prendere corpo dalle acque del fiume per diventare altro. Penso ai bagni termali di Porretta Terme, ma anche all’acqua utilizzata come fonte battesimale e a tanti altri luoghi e situazioni che diventano spunto per altrettante storie messe in scena utilizzando attraverso altrettanti generi cinematografici.
Mi interessava molto l’idea che la memoria del fiume si dipanasse attraverso racconti molto diversi tra di loro e che questo viaggio fosse un’indagine effettuata attraverso le storie di più mondi. Volevo che in questo piccolo microcosmo arrivasse il mondo e che ci fosse uno sguardo disponibile ad accoglierlo. Ecco allora che in una delle scene iniziali il battesimo di alcuni africani nelle acque del fiume non vuole essere il segno di un cosmopolitismo, ma comunque segnala la presenza del mondo. L’utilizzo di diversi generi cinematografici e dunque di storie paurose o sentimentali mi ha permesso di sottolineare le sfaccettature di questo universo. È come se il fiume avesse in se tanti volti quanti quelli necessari a rappresentarlo.
Pur essendo un film di finzione L’oro del Reno si apre alla realtà con un tipo di osservazione propria del cinema documentario. Il fatto di anteporre una realtà precostituita a una poesia del reale ispirata dal manifestarsi degli eventi ne è testimonianza.
La mia intenzione era quella di far percepire questa ambiguità. Il fatto di reinventare la realtà con una buona dose di immaginazione non ha fatto mai venire meno la necessità di poter disporre di una porzione di reale. Da questo punto di vista penso che L’oro del Reno sia un film imperfetto proprio perché non ha una struttura conclusiva classica. D’altronde accettare di fare il film partendo da una condizione di spaesamento voleva dire fare i conti con una narrazione aperta e dunque non auto conclusiva.
Nel mettere in scena un mondo magico e poetico L’oro del Reno mescola cultura alta e bassa con un’ingenuità della messinscena che persegue la meraviglia fanciullesca con cui i personaggi si muovono all’interno della storia.
Un aspetto che mi stava molto a cuore era la curiosità ed è questa che attraverso lo sguardo ha regalato al film lo stupore che accompagna il farsi della storia. Il desiderio di accogliere il mondo è forse l’aspetto più personale presente nel film e, come dici tu, questo contiene un elemento infantile anche bambinesco.
Lorenzo Pullega e il non prendersi sul serio
Peraltro nel film le riflessioni più alte sono spesso accolte con battute di tenore opposto in cui a prevalere è sempre la voglia di non prendersi sul serio. Penso al direttore d’orchestra che al regista professa l’inutilità di girare un film sul Reno e, ancora, al passante che di fronte alla riflessione ad alta voce di quest’ultimo lo invita a non dire stupidaggini. D’altronde fin da subito il tono è quello da commedia surreale.

Sì, perché poi a dire le cose più alte è il regista che io mi immagino in quello stato di grazia che si ha quando si sta per iniziare un film e si passeggia pensando al da farsi. È vero che la cornice del film è costituita dalla realizzazione di un documentario ma L’oro del Reno non è un lungometraggio sul cinema e su come si fa un film, tant’è che non si vede mai una troupe. È più un lungometraggio sullo stato mentale che si ha quando si inizia a pensare a un film, cosa che di per sé è il momento più bello per chi lo deve fare. Devo anche dire che essendo il regista un po’ chiuso nei suoi pensieri mi piaceva la presenza di una realtà che lo portasse sempre in un’altra direzione. Volevo sgonfiare quel suo modo di pensare un po’ claustrofobico con quelle improvvise aperture in cui le persone si assumono il compito di riportarlo con i piedi a terra. Non a caso la battuta più importante del film, quella che ne coglie la verità ultima, non la faccio pronunciare a un personaggio cattedratico ma ad Athos, il simpatico scambista che incontriamo nell’inserto dedicato al Popolo del sole.
Gli opposti
L’oro del Reno è fatto di opposti che si rivelano non essere tali. Penso soprattutto alle facce e ai corpi: quelli classici dei ragazzi che si fanno il bagno nel fiume seguiti dalle nudità carnascialesche esibite dal Popolo del sole. Ancora, mi vengono in mente l’alternarsi di luce e tenebra, di colori accesi e spenti.
Proprio così. Per me era era molto interessante catalogare una serie di stati emotivi: seguirli e includerli in un crescendo emotivo più che narrativo. Da questo punto di vista L’oro del Reno è un lungometraggio che, anche in fase di scrittura, conteneva storie che ci piacevano molto, ma che poi sono state escluse perché non stavano bene con la progressione sentimentale del film o comunque non ne rispettavano la varietà all’interno della storia. Però sì, anche questo fa parte un po’ del desiderio di abbracciare questa realtà includendo degli opposti che, però, come dicevi giustamente tu, si compendiano uno con l’altro finendo per essere facce dello stesso ritratto.

Le storie che costruisci prendono spunto da mitologie e folklore locale per poi vivere di vita propria. Così succede alla figura del cercatore d’oro che fa la sua comparsa alla fine della storia. La sua morte coincide con quella – ideale – del fiume che arrivando alla foce si ricongiunge al mare decretando la fine del viaggio filmico. Continuando a ragionare in termini simbolici dietro quella persona senza nome si potrebbe celare l’identità del regista, anche lui arrivato al termine delle riprese, anche lui alla ricerca del suo oro cinematografico.
Sono molto aperto alle interpretazioni del film per cui non faccio fatica a riconoscere nell’uomo senza vita riverso sul bagnasciuga una sorta di doppio del regista, considerando che l’oro del fiume potrebbe benissimo coincidere con quello trovato dall’autore nel corso del suo viaggio filmato. Poi ci sono delle connessioni che onestamente mi sfuggono per cui mi fa piacere se gli spettatori mi aiutano a chiarirle.
Attori non conosciuti
La scelta di fare a meno di attori molto conosciuti, fatta eccezione per Rebecca Antonaci, già protagonista de Finalmente l’Alba di Saverio Costanzo – corrisponde al principio di meraviglia che appartiene anche alla visione dello spettatore oltre che dei personaggi. L’assenza di volti conosciuti mette chi guarda nella condizione di non sapere cosa lo attende e quindi di scoprire ogni volta una nota nuova e sconosciuta. Se così non fosse stato il senso di perdita e di meraviglia che attraversa il film sarebbe stato molto meno efficace.
Scegliere attori non troppo noti era una scelta di cui ero convinto fin dal principio proprio per il motivo a cui accennavi nella domanda.
Le sequenze dedicate a Porretta Terme sono tra le più lunghe e stratificate a livello formale con una prima parte spiritosa e surreale e l’altra destinata a diventare una storia di fantasmi. La sezione che apre la storia si conclude con una scena che sembra rifarsi al modello del carosello televisivo.
Questa annotazione è bellissima perché in effetti ragionandoci su mi sembra possa assomigliare alla tipologia di racconto a cui facevi riferimento. I luoghi di Porretta Terme sono quelli dove mi sono maggiormente soffermato perché mi sembrava fossero pieni di quell’amore verso le impressioni passate di cui la città è piena.

Il cinema di Lorenzo Pullega
Parliamo del cinema che ti piace.
Nutro grande amore per i film corali capaci di raccontare un mondo. Penso ai film di Robert Altman ma soprattutto a Fanny e Alexander di Ingmar Bergman che forse è il mio preferito di sempre. Ho avuto un’ossessione totalizzante per Federico Fellini ma ho amato anche cose molto diverse da quelle appena citate. Penso al cinema di Sam Raimi e in particolare alla trilogia di Evil Dead. Il secondo dei tre film è stato il mio battesimo cinematografico. Oltre a lui l’altro regista fondativo della mia infanzia è stato Stanley Kubrick. Kubrick stimolava in me la voglia di fare cinema mentre Raimi faceva crescere in me la convinzione di poterlo fare. Accanto a questi ci sono film che quando rivedo in DVD mi verrebbe voglia di ricomprarne altre dieci copie. Uno di questi è Misterioso Omicidio a Manhattan e poi Il Dracula di Francis Ford Coppola.