Abito di confini, presentato nella sezione Made in Italy di Cinemambiente, è il mediometraggio diretto da Opher Thomson, realizzato con la collaborazione dell’università di Parma attraverso il progetto di ricerca MOBS ‘Mobilità, solidarietà e immaginari attraverso i confini: spazi di transito e di incontro’.
Un’esperienza fantasma
Quello di Abito di confini è un progetto nato nella stagione 22-23, quando il regista, con l’università di Parma, aveva il compito di studiare i movimenti migratori nella frontiera montana tra l’Italia e la Francia per produrre del materiale artistico. L’approccio scelto però è particolare: nessuna videocamera viene utilizzata e nessun migrante viene ripreso; Thomson sceglie di utilizzare unicamente delle fotografie raffiguranti il percorso che questi uomini intraprendono.
Abito di confini è una video-mostra che ha per protagonisti scorci di vari paesaggi e città, che, diventando luoghi transitori e liminali, donano la visione d’insieme di un’esperienza fantasma, inesistente per la poca considerazione che le viene data. E per tale ragione Thomson, con le sue foto, fa coincidere lo sguardo dello spettatore con quello della sua fotocamera, attuando un meccanismo di immedesimazione suggestivo che riesce a bucare lo schermo con un importante elemento di coinvolgimento.
Erranti invisibili
La dialettica esposta dal mediometr

aggio non si limita solo a far coincidere lo sguardo spettatoriale con quello meccanico. L’odissea di cui si è testimoni in Abito di confini è prima di tutto l’esperienza del migrante, dell’errante invisibile che esiste solamente in un controcampo ipotetico e ideale. Convivono assenza e presenza in immagini che riescono a essere sia estetiche, per la bellezza artistica delle stesse, che etiche per ciò che vanno a rappresentare.
Perché infatti, le fotografie di Thomson, hanno la capacità di eccedere il confine fisico in cui si rinchiudono, soprattutto con questa formula associativa che vede la rapida successione degli scatti fotografici. Con questo accumulo di frammenti e particolari visivi, è messa in piedi una narrazione di statico dinamismo, leggibile scovando il legame presente tra una foto e la successiva.
Semantica di un sostantivo
Ciò con cui si apre Abito di confini non è però un’immagine, ma una riflessione: come e quando si diventa migranti? Quali elementi condizionano l’utilizzo di questo termine? Chi è, quindi, un migrante?
È un estraneo, un emarginato, un fantasma che non esiste, che non appartiene a nessun luogo in cui transita e né, tantomeno, in cui giunge. In una società che si riempie la bocca di etichette deumanizzanti , Abito di confini riesce a imporsi come un’opera che tenta di andare contro-corrente, problematizzando una questione su cui c’è ancora troppa poca sensibilità.
In conclusione, il gesto fotografico di Thomson rimanda a una presenza umana passata, presente e futura. Crea con successo un determinato sguardo che permette ai vari luoghi mostrati di acquisire un significato che, altrimenti, lo spettatore medio non riuscirebbe a trovare.