Presentata al Riviera International Film, l’opera prima del regista franco-georgiano Akaki Popkhadze, In the Name of Blood. Il film, frutto di una produzione tra Adastra Films, Beside Productions, Elly Films, è co-scritto assieme a Florent Hill. Nel cast: Nicolas Duvauchelle, Florent Hill, e Ia Shugliashvili.
Di cosa parla In the Name of Blood
Un membro della comunità georgiana viene assassinato perché scambiato per il suo capo, un oligarca russo. Il figlio Tristan, in procinto di diventare prete ortodosso, assieme al fratello Gabriel, intraprende un viaggio nella Nizza criminale, spinto dalla sete vendetta e dall’onore.
Il cinema americano in Europa – In the Name of Blood
Ciò che fa Akaki Popkhadze, il regista del film, non è altro che prendere stilemi del cinema americano di genere, la sua violenza, e trasportarlo nel terreno europeo, da sempre poco incline a letture di questo tipo. In the Name of Blood è la classica storia di vendetta e onore di cui parla un certo cinema, quello della New Hollywood del Martin Scorsese e del Francis Ford Coppola degli esordi. E che, a dirla tutta, Popkhadze interpreta non facendone quasi mai una vera propria copia ma inserendosi nella comunità criminale di Nizza con un certo appiglio autentico e deciso, forte della cultura neorealista del cinema francese.
Se dovessimo valutare l’opera sul livello narrativo non troveremo nulla di nuovo; una dimensione corrotta e un clima di assuefazione al prototipo criminoso, il tema dell’onore di due fratelli immerso in quello vendicativo nei confronti del padre, e infine il piano rocambolesco del gangster movie che Popkhadze compone in una Nizza che fa Stato a sé, governata da boss e padrini vari.

Un’impalcatura che il regista georgiano fa sua essendo in buona compagnia nel cinema europeo, basti pensare all’ossessione di Guy Ritchie per il pulp mafioso. Il film è diviso in tre capitoli e un epilogo, probabilmente sfruttando la formula tarantiniana, e se nella prima parte, ossia nell’agguato sfortunato, In the Name of Blood ha dei riecheggi alla Gomorra, la sua violenza derivativa americana viene affrontata molto meglio nel suo seguito. Per come inquadra, angola le riprese e gestisce i grandangoli, Popkhadze si presenta come un novello Scorsese nel repentino dinamismo mafioso.
Un film di clichè e ben diretto
Ma è nella dicotomia fede/violenza che il paragone con Il Padrino di Francis Ford Coppola emerge nella sua totalità. La vendetta è una questione di famiglia, e l’ortodossia georgiana emerge già nella fotografia che tenta di emulare Gordon Willis con l’uso delle ombre per accentuare i contrasti. Mentre sono a tavola, la famiglia dell’ucciso medita vendetta in una condizione sacrale e di onore molto vicino al nucleo mafioso-familiare di Michael Corleone. Akaki Popkhadze cerca di riprodurre il gangster americano nella formula minimalista di una produzione europea, con un risultato avvincente e a tratti ripetitivo.
Due fratelli tra male e bene
Sia ne Il Padrino che in In the Name of Blood, il sangue porta sangue e la vendetta è un scelta che spetta direttamente ai figli del boss. Ma mentre nel cult di Coppola questa decisone inevitabile orientava Al Pacino verso un processo antieroico, i due fratelli del film sono combattuti tra bene e male, sprofondare in ciò che è sbagliato o rimanere nel giusto. Forse è qui che emerge la differenza sostanziale con la New Hollywood americana, e questo perché il film del regista georgiano fa sempre i conti con l’etica e la morale di un certo cinema europeo che deve sempre ricondurre all’azione criminosa un sentimento di colpa e pentimento.
Le facce di Tristan e Gabriel sono scavate dalla morte e dal dolore, riprese ambedue da Popkhadze come se i protagonisti volessero allontanarsi da quel mondo. Da una vendetta senza via d’uscita, obbligata, ma dalle quale le inquadrature suggeriscono una repulsione per la loro situazione famigliare criminosa. Lo scopo dei due fratelli non è poi tanto il regolamento dei conti ma giungere al ritrovamento del corpo, quello del padre, dando un senso alla giustizia religiosa superiore all’onore della vendetta.

La regia di Akaki Popkhadze nello spazio interiore
Vedendo In the Name of Blood non si può fare a meno di ragionare in termini spaziali. Nella seconda parte del film, il gangster movie è un viaggio, un road movie tra due fratelli alla ricerca delle colpe e del significato della morte. E Popkhadze lo fa in modo ambivalente alternando riprese fluide e movimenti dall’interno dell’inquadratura. Se nella rappresentazione del paesaggio francese il film, per lunghi tratti, sembra inserirsi all’interno di un beach movie, l’uso della camera a mano, della steadycam, mostra il viaggio introspettivo dei protagonisti e il loro tumulto interiore : una caratterizzazione instabile che spinge Tristan e Gabriel a trovare nel dolore un proprio equilibrio. L’uso degli obiettivi a focale corta spiega proprio questo, l’intenzione del regista georgiano di tramutare il classico revenge movie in un’opera intima tra due fratelli.
In the Name of Blood, nonostante molti clichè del cinema di genere, rappresenta un esordio convincente. Un film psicologico sulla vendetta e il senso del lutto.