Presentato all’ultima edizione del Trento Film Festival – Montagne e culture, The Wolves Always Come at Night è una docufiction diretta dall’australiana Gabrielle Brady e scritto dalla stessa regista insieme a Davaasuren Dagvasuren e Otgonzaya Dashzeveg, questi ultimi protagonisti reali della vicenda narrata.
Il film è una coproduzione tra Mongolia, Australia e Germania ed è distribuito da Chinephil.
The Wolves Always Come at Night, la storia
Davaa e Otgozaya hanno quattro figli. Fanno parte di una piccola comunità di pastori nomadi, tutti parenti tra di loro, che vivono in iurte nel deserto del Gobi della Mongolia. La coppia, insieme al figlio maggiore, si occupa del bestiame che conduce ogni giorno al pascolo per riportarlo la sera nelle stalle. La notte Davaa si sveglia spesso per continuare a vigilare su capre e cavalli, unico patrimonio e fonte di sostentamento della famiglia.
Gli effetti del recente cambiamento climatico rendono quella terra, già aspra è difficile, ancor più ostile e avara. In seguito alla perdita di gran parte del bestiame, Davaa decide quindi di spostarsi con la famiglia in città, rinunciando a essere un pastore, per trovare lavoro nell’industria estrattiva. Gli è subito chiaro, tuttavia, che quella non è la sua vita e che un ritorno al suo mondo pastorale, che egli continua a vedere in sogno, non è né facile né scontato.
The Wolves Always Come at Night, il trailer
The wolves always come at night è un film suggestivo già dal titolo. Anche se i lupi non si vedono mai. Li sentiamo, la notte, ma non sembrano essere il vero pericolo. A minacciare l’esistenza della comunità di pastori è il clima impazzito. Le tempeste di sabbia sono diventate inusitatamente violente, spaventano il gregge allontanandolo dall’accampamento, lo disperdono nel deserto. Il cambiamento climatico cambia la vita di Daava e della sua famiglia, nomadi come buona parte degli abitanti delle steppe mongole.
The wolves always come at night è un documentario drammaturgicamente trattato, con punti nodali riconoscibili e un forte midpoint dove si colloca l’esodo verso la città. La messa in scena segue e rispetta la natura documetaristica del film. Le potenti immagini delle cavalcate nella steppa, gli orizzonti vasti del deserto, i brillanti colori dei costumi tradizionali: tutto è raccontato da una splendida fotografia, con lente panoramiche sempre a servizio di ciò che si documenta, una cinepresa e una regia invisibile che riprende la realtà con discrezione e non chiede alle persone in scena nient’altro che il fare quotidiano.
Nel quotidiano di quei popoli, c’è spazio per una ritualità che ci dà la misura di quanto essi siano spiritualmente connessi alla natura circostante. Le preghiere di ringraziamento, il rituale del te, lo scambio dell’huurug, la boccetta col tabacco che gli uomini quando si incontrano si scambiano e annusano reciprocamente, parlando di come sarà la primavera in base all’osservazione notturna delle stelle.
Tutto ciò fa parte di una dimensione che sparisce col trasferimento dei protagonisti in città e che genera una malinconia che li porta a sognare il mondo pastorale della steppa che hanno dovuto abbandonare. Una nostalgia racchiusa nella visione finale di Davaa del suo adorato e superbo cavallo.