Film cult del regista Kurosawa Kiyoshi, Kairo esplora il senso di solitudine e di isolamento sociale causato dall’arrivo di Internet, ma anche gli effetti della depressione
Scritto e diretto nel 2001 da uno dei maestri del J-Horror, Kairo (Pulse) è tornato in sala a Torino, presso il Cinema Massimo, all’interno di una sezione che ha reso omaggio al cinema nipponico. A seguito del grande successo ottenuto, tra cui il premio FIPRESCI nella sezione Un Certain Regard della 54esima edizione del Festival di Cannes, nel 2006 è stato realizzato un remake americano dell’opera di Kurosawa Kiyoshi.
In apparenza un puro e semplice horror, Kairo in realtà indaga la condizione umana con grande amarezza e disillusione, instillando nello spettatore un senso di inquietudine crescente che perdurerà a lungo, anche dopo la fine del film.
Kairo: un file mortale
Quando il giovane informatico Taguchi viene trovato morto suicida nel suo appartamento, i suoi colleghi avviano delle indagini per comprendere le ragioni del suo gesto estremo. L’unico indizio rinvenuto è un misterioso floppy disk presente nel computer di Taguchi. Questo, però, contiene un virus pericolosissimo che infetta chiunque lo utilizzi. Molte altre morti iniziano a susseguirsi e strane presenze si manifestano all’interno di stanze sigillate con un nastro rosso. L’apocalisse è ormai vicina.
Le conseguenze del digitale
Utilizzando espedienti tipici del J-Horror, Kurosawa realizza un film che si dimostra ben più profondo e complesso. Kairo, infatti, non mira tanto a spaventare temporaneamente lo spettatore (tant’è vero che non vi sono jumpscare) ma, proprio perché affronta alcune criticità legate all’esistenza umana, genera un senso di profonda angoscia che penetra lentamente sottopelle.
In particolare, attraverso la storia portata sul grande schermo viene evidenziato il forte impatto di Internet nelle vite umane, tema che rende Kairo estremamente attuale e dalla portata quasi profetica. Seppur girato più di vent’anni fa, quando il web non era ancora così sviluppato e quando già esisteva il fenomeno degli hikikomori, ma era meno diffuso rispetto ai nostri giorni, Kurosawa porta in scena alcune problematiche che permeano tutt’ora la nostra società.
Nulla è cambiato in più di vent’anni, anzi: in un’epoca in cui si vive maggiormente nel mondo virtuale, eclissandosi da quello reale, il senso di isolamento e alienazione è ora decisamente amplificato. Gli individui non sono più in grado di interagire, pur trovandosi l’uno vicino all’altro. All’infuori della connessione digitale che, soprattutto tra i giovani, oggi costituisce la principale forma di contatto, nessuna relazione autentica e profonda con il prossimo appare più possibile.
L’universo virtuale è indubbiamente in grado di diminuire (e addirittura annullare) lo spazio fisico tra una persona e l’altra, facilitando la creazione di legami con persone molto distanti geograficamente tra di loro. La comunicazione, poi, diviene più rapida e immediata. Per parlare con qualcuno basta scrivere un messaggio, che verrà ricevuto dopo pochissimi millisecondi. Tuttavia, l’altra faccia della medaglia non è così idilliaca. Infatti, la distanza fisica tra i soggetti, che spesso prediligono le comunicazioni sul web, è aumentata drasticamente. Moltissimi giovani perdono gradualmente contatto con la realtà, portandoli a sacrificare i loro legami affettivi con la famiglia e con gli amici, ma anche a perdere interesse per hobby e passioni. La scelta di emarginarsi dal mondo circostante li trascina sempre più verso una grave forma di apatia e disumanizzazione.
«Le persone non si connettono davvero, sai. Siamo tutti completamente separati», viene detto ad un certo punto nel film. Come non ricollegare queste parole a ciò che succede nella nostra società. Spesso soli e disorientati, gli adolescenti trovano nei social media un modo per combattere il senso di emarginazione proprio per l’illusione di estrema vicinanza con i loro coetanei. Grazie all’anonimato, possono costruirsi una versione ideale di sé che li faccia sentire accettati e accolti. Ciò inevitabilmente genera una dipendenza, in quanto tenteranno sempre più spesso di evadere dal mondo reale, dove possiedono minore controllo e non possono fingere di essere qualcun altro.
I problemi che ne derivano, però, sono molteplici: oltre all’isolamento sociale si verificano anche sbalzi d’umore improvvisi, con un senso di rabbia, tristezza e frustrazione ogniqualvolta si sconnettono. Vi è poi la FOMO (Fear of Missing Out), legata alla paura di perdersi qualcosa quando non si è online. Spesso, poi, i giovani possiedono una scarsa qualità del sonno, dovuta alle ore trascorse sul web. Infine, è evidente come sui social si presentino modelli irrealistici a cui fare riferimento: la costante tendenza a confrontarsi con l’altro, sentendosi in difetto, può seriamente danneggiare la salute mentale dei giovani.
All’interno delle inquadrature, Kurosawa riesce a rendere visivamente il senso di isolamento provato dai personaggi. Infatti, questi spesso si trovano soli, oppure, se in compagnia, i loro sguardi faticano a convergere. Una barriera invisibile sembra separarli irrimediabilmente l’uno dall’altro.
Infine, esemplare nel film è la scena in cui vediamo dei puntini che si avvicinano e si allontanano sullo schermo di un computer. Questi, costretti a sperimentare incontri fugaci con i loro simili e a distanziarsene rapidamente ogni volta che si trovano in prossimità l’uno con l’altro, costituiscono una chiara metafora dell’attuale condizione umana.
Vorresti incontrare un fantasma?
Nel suo film, Kurosawa non solo analizza gli effetti causati dall’arrivo di internet, ma esplora anche i sintomi e le conseguenze della depressione. Il disturbo depressivo viene qui rappresentato da un virus mortale che si insinua nelle vite delle persone e le corrode dall’interno, portandole a isolarsi e a sperimentare una lunga sofferenza che culmina con il suicidio.
Consideriamo che Kairo, poi, è stato girato all’inizio degli anni Duemila, quando il fenomeno degli hikikomori era in forte incremento. Quest’ultimo si riferisce all’auto-ritiro sociale e, solo nel 2019, la BBC ha riferito che circa 541.000 giapponesi vivevano volontariamente nello stato di completo isolamento dal mondo esterno. Non solo: in Giappone, infatti, esiste un’altra grave problematica che prende il nome di kodokushi (“morte solitaria”) e che si riferisce alla morte in solitudine delle persone. Proprio a causa della solitudine, i cadaveri spesso rimangono abbandonati nelle abitazioni per un lungo periodo di tempo. Per questo motivo, in Giappone esistono aziende specializzate nella pulizia di ‘scene di kodukushi, con alcuni dipendenti che arrivano a pulire fino a 300 stanze all’anno.
Nel film di Kurosawa i personaggi contagiati dal virus iniziano ad intraprendere un graduale isolamento rispetto alla società circostante. Progressivamente diventano dei non-vivi, esistono, ma non vivono più. Cominciano a muoversi in maniera più lenta, la loro espressione diviene assente, un vuoto interiore li dilania. Si rifugiano in luoghi cupi e assumono sempre più le sembianze di fantasmi, fino a diventarne uno dopo essersi uccisi. Addirittura, una volta scoperta la perpetua sofferenza che si protrae nell’aldilà, le vittime non ricorrono più nemmeno al suicidio, ma si abbandonano ad un lento e inesorabile dissolvimento della loro sostanza.
Il regista segue le loro vite scandite da un’estrema lentezza. I non-vivi (o non-morti) si trovano in un limbo, sospesi tra la vita e la morte. Sono già morti ancor prima del momento del trapasso perché, in fondo, «le persone e i fantasmi sono la stessa cosa, che siano vive o no». Trascorrono le giornate o, meglio, le subiscono. Abbandonati in uno stato di totale passività, si rassegnano al passare del tempo in attesa di un cambiamento che non avverrà mai.
Kurosawa enfatizza la tragicità di questi atteggiamenti ambientando le scene in luoghi claustrofobici e scuri. Ancora una volta l’isolamento sociale diventa l’isolamento fisico all’interno dell’inquadratura: queste entità spesso sono collocate ai margini, nella penombra, quasi volessero sottrarsi alla cinepresa. Se presenti in primo piano, invece, si presentano con il volto celato o non visibile in maniera nitida.
La macchina da presa, quindi, accompagna i tempi morti di questi fantasmi, esasperandone i gesti rallentati e angoscianti, generando un clima di totale disperazione. Come suggeriscono le richieste di aiuto degli spiriti, non esiste alcuna salvezza. Prima e dopo la morte, essi continueranno a rimanere soli.
L’apocalisse è vicina
La visione pessimista di Kurosawa Kiyoshi traspare lungo tutto il corso del film. Per quanto riguarda la scelta cromatica, il lungometraggio è caratterizzato da atmosfere lugubri. I colori sono spenti, con una forte prevalenza di tonalità grigie. Man mano che Kairo prende forma, poi, emerge sempre più chiaramente la sensazione di presagio riguardo a un’apocalisse imminente, che si concretizzerà effettivamente nel finale. Questa è accresciuta dalla musica all’interno del film, che spesso presenta il suono di archi dissonanti.
Non c’è nessuna possibilità di salvezza per l’umanità, che diventa sempre più conscia dell’incapacittà di prendere in mano la propria vita e cambiarne il futuro. Come scrive Calorio in Mondi che cadono: il cinema di Kurosawa Kiyoshi, i personaggi di Kurosawa «si trascinano verso la propria fine lentamente, stancamente, come già morti, come fantasmi appesantiti, vittime della propria forza di inerzia». Tutto ciò che resta loro, quindi, è subire passivamente gli avvenimenti che si verificano tutt’intorno e rassegnarsi ad un triste destino fatto di solitudine e sofferenza.
Kurosawa sembra suggerirci la tragica impossibilità di instaurare rapporti autentici con gli altri, così come quella di una reciproca comprensione. La solitudine che ne consegue non si interrompe con la morte, come si potrebbe pensare, ma prosegue e accresce ulteriormente. L’aldilà, quindi, è visto come un luogo in cui l’isolamento si amplifica, condannando l’individuo ad una prigionia eterna.
Cosa resta, quindi? Il finale di Kairo ci pone di fronte a un quesito abbastanza emblematico. La fuga «verso qualcosa che ancora si chiama futuro» è davvero in grado di costituire una piccola speranza a cui aggrapparsi per salvarsi dall’apocalisse?