Potrebbe essere l’outsider di questa edizione degli Academy Awards. Candidato all’Oscar per la miglior sceneggiatura originale, A real pain ha buone probabilità di portarsi a casa la statuetta. La storia di Jesse Eisenberg, sceneggiatore e regista, è tanto semplice quanto coinvolgente. Ed è ciò che basta per fare un ottimo film.
Costruito come un classico road movie, il secondo film scritto e diretto da Jesse Eisenberg racconta il viaggio in Polonia di due cugini americani, David (Jesse Eisenberg) e Benji (Kieran Culkin). È un viaggio organizzato, un tour della memoria dell’Olocausto: i partecipanti sono tutti ebrei con origini polacche, compresi i protagonisti e lo stesso Eisenberg, che ha messo molto di sé nel proprio personaggio. È un viaggio della Memoria, che porta con sé le classiche, ma mai ripetitive, riflessioni sulla Shoah e sul valore della memoria. Tuttavia, non è questo il fulcro di A real pain.
In A real pain comandano i personaggi
Al centro di tutto ci sono i personaggi. Da una parte David: creatore di (odiosi) banner pubblicitari online, padre e marito felice, ansioso, nervoso, dedito alla razionalità estrema, a causa di un disturbo ossessivo compulsivo che gli crea più di un ostacolo anche nelle relazioni sociali. Dall’altra il cugino Benji: perdigiorno patentato, ben fornito di marijuana, molto sensibile, emotivo, capace di fare amicizia anche con i muri. Il giorno e la notte, insomma. Due personaggi molto diversi che, nonostante tutto, si amano. A real pain è un buddy movie fra due amici/cugini/fratelli che si vogliono bene, ma non sanno più come dirselo.
Gli attori, perfetti per questi ruoli, hanno la sintonia giusta per valorizzarsi a vicenda, in perfetto equilibrio. A real pain funziona grazie all’incastro fra Eisenberg e Culkin. Per questo stona la candidatura a miglior attore non protagonista di Culkin, quasi più centrale del partner Eisenberg. Forse non c’era posto nella categoria più ambita, ma questa scelta comporta un ridimensionamento notevole della performance e del ruolo di Culkin. La speranza è che, almeno, in questo modo l’attore non torni a mani vuote.

A real pain fa tutto bene, tranne una cosa
Eisenberg si rifà al cinema di Alexander Payne, a Sideways e The Holdovers, a Green Book, a Little Miss Sunshine. C’è tenerezza, amore, ironia nel parlare di amicizia, di dolore, di tristezza. C’è una sceneggiatura potente, valorizzata dalla trasparenza della regia votata alla chiarezza. Qualche inquadratura più raffinata, accostata a una selezione di musica classica, ma niente di più. Niente orpelli, niente vezzi: A real pain sembra un classico film americano. Anche se gli manca qualcosa.
Manca una vera e propria trasformazione. I protagonisti di A real pain sembrano non percepire per davvero l’esperienza di questo viaggio. Eisenberg semina tanti spunti interessanti, senza raccoglierli a dovere. Manca il classico viaggio dell’eroe, il percorso attraverso cui il protagonista capisce i suoi difetti, si trasforma e migliora. Questa mancanza lascia un’insoddisfazione di fondo. I personaggi iniziano in un modo, vivono delle esperienze importanti, ma tornano a casa quasi intatti. Il film segue lo stesso processo: inizia, segue una storia, ma finisce dove ha cominciato.
Un difetto importante per un film di questo tipo. Il punto è capire se questo difetto sia un errore o una scelta. A real pain tocca tanti temi importanti: la famiglia, la Memoria, il dolore. Sono temi vitali, spinosi, difficili. I protagonisti hanno dei problemi, ma non li risolvono tutti con questo viaggio. Forse Eisenberg ci sta dicendo che non basta un viaggio per sistemare tutto. E non basta un film per cambiare la mentalità delle persone. Ci vuole più tempo, più impegno, più respiro. Per questo A real pain ha qualcosa da dire anche al di fuori della sua finzione narrativa: perché il suo significato va oltre la semplice storia.