Conoscevamo già Luca Alessandro sia per il documentario Mindsurf, sia per le sue incursioni nel cinema horror. Ma ha saputo ancora sorprenderci, restando in un ambito decisamente “dark”, con il recentissimo Vae Victis, presentato con successo all’ultimo Festival Internazionale del Cinema di Salerno: un film che travalica le tradizionali distinzioni formali e di genere in modo alquanto innovativo, mescolando tra loro tracce che possono rimandare di volta in volta al noir, al documentario d’arte, al videoclip / film musicale, alla classica biografia cinematografica affrontata però secondo un’ottica straniante e lisergica.
Ma potremmo riprendere anche, per provare a descrivere tale lavoro, le parole usate dalla collega Michela Aloisi proprio su Taxi Drivers: “Il regista racconta le vicissitudini del pittore Valerio De Filippis con un tratto prettamente visivo e musicale, dipingendo le emozioni trasmesse dalle sue opere in maniera quasi viscerale, utilizzando tutti i colori dell’incubo. La libertà stilistica è la cifra di Vae Victis: Alessandro passa senza soluzione di continuità dalla descrizione delle opere di De Filippis a segmenti puri di fiction dai contorni macabri e tenebrosi, quasi come se le opere prendessero vita in un breve racconto onirico a tinte horror.”
Ad ogni modo non ci siamo accontentati e abbiamo voluto sentire direttamente lui, l’autore, per farci raccontare la genesi di opere cinematografiche che ci appaiono sempre molto particolari.

Le origini di una passione
Prima di concentrarci sul tuo ultimo lavoro, Vae Victis, vorremmo che ci dicessi, Luca, come è nata in te la passione per il cinema, sia quello documentario che le opere di finzione. Abbiamo notato in tal senso una certa propensione per l’horror, per le atmosfere “dark”. Quali sono stati quindi i tuoi primi passi in tale ambiente?
La mia passione per gli horror nasce da piccolino. Mia sorella si divertiva a spaventarmi durante lo show televisivo di Zio Tibia. Anche se mi facevano paura, non potevo fare a meno di guardarli, e più ne guardavo, più le mie paure venivano per così dire “esorcizzate”. Nel tempo ho masticato di tutto, dallo splatterone all’horror psicologico fino ai classici. L’ora del lupo di Bergman rappresentò per me uno spartiacque, il ponte verso altri generi cinematografici, e di conseguenza la sua fu la prima filmografia “non horror” ad essere approfondita. I miei primi lavori professionali sono comunque stati di genere horror e thriller. Ricordo in particolare la bellissima esperienza vissuta con il collettivo di The Pyramid e il cortometraggio Questione di sguardi, con attore protagonista Alberto Di Stasio (conosciuto ai più per aver interpretato il ruolo di “Sergio” nella serie tv Boris). Il documentario invece l’ho scoperto molto più tardi, conseguentemente alla vittoria della terza edizione del bando MigrArti, organizzato dal vecchio MiBACT (oggi MiC); in quell’occasione realizzai DEEP, un cortometraggio di carattere documentaristico su tre giovani ragazzi migranti sopravvissuti all’ennesima tragedia in mare e ospitati dalla città di Salerno. Da quel momento in poi mi si aprì un mondo! Mi piace il documentario perché ogni persona che incontri è come tutti gli altri e allo stesso tempo unica, ed è una scoperta continua che ti arricchisce molto sul piano personale. La cosa più complessa è imparare a maneggiare materiale umano con estrema delicatezza; non è come con gli attori, che recitano una parte e poi, il giorno dopo, tornano alle loro vite. Avverti una certa responsabilità, e questo è sicuramente l’aspetto più adrenalinico. Con Vae Victis ho sperimentato per la prima volta una forma ibrida di fiction e documentario, non riconducibile ad una semplice docufiction, ma piuttosto a quei film che un festival come il CPH:DOX (festival del documentario di Copenaghen, dove l’anno scorso ero presente) classifica nel genere parafiction (o fictiononfiction). Non è un caso che il mio regista preferito sia danese (Lars von Trier).
Restando in ambito prettamente documentaristico, il nostro primo approccio con questa parte della tua produzione è avvenuto tramite Mindsurf, film in cui alle suggestioni offerte dall’elemento acquatico si sommano storie personali dure, delicate, sofferte. Come ti sei trovato a gestirle e a doverle poi raccontare, rapportandoti così alle differenti sensibilità nonché alla sfera più intima delle protagoniste?
Non è stato facile, in primis gestire il lutto di mio cognato; poi perché il documentario è stato girato in piena pandemia covid e, come giustamente sottolinei, il focus è su più personaggi. L’aiuto di mia sorella, la Dott.ssa Ilaria Alessandro, è stato fondamentale. Le sue competenze mi hanno fornito preziosi spunti e consigli. Mi ha colpito l’idea di una terapia portata alla luce con lo scopo che il racconto di una persona possa essere d’aiuto per altre laddove spesso si crea solitudine e isolamento. Ho trovato un ambiente disponibile fin da subito, che mi ha accolto; la conferma del bel clima che Ilaria riesce di volta in volta ad instaurare risiede nel fatto che il corso è già arrivato alla settima edizione e che tutte le classi, vecchie e nuove, sono coese e ancora oggi fanno rete fra di loro. Io mi sono limitato a lasciar parlare le emozioni delle ragazze (il primo gruppo era composto da sole donne), che ancora oggi ringrazio per aver portato la propria testimonianza, e a rispettare la volontà di ciascuna di loro, anche di chi non se l’è sentita o ha partecipato soltanto in parte al documentario. Poi ci sono tutte quelle “mediazioni artistiche” (prendo in prestito il termine da te utilizzato nella tua recensione su Mindsurf), che vanno dalle animazioni di sabbia all’insegnante di clown, che mi sono venute in soccorso.

Lo stile di “Vae Victs”
Venendo finalmente a Vae Victis, l’intreccio di documentario classico (con le puntuali interviste agli esperti del settore) e di segmenti che oscillano tra la fiction e la videoarte, ci è parso originale, anche piuttosto innovativo. Hai avuto da subito in mente una simile scelta formale?
La prima cosa che ho pensato è stata, appunto, se realizzare il classico documentario o provare a fare qualcosa di diverso; nel caso di Valerio ho ritenuto fin da subito che la seconda opzione fosse la strada da percorrere (giusta o meno, lo diranno i posteri). Mettere in scena i suoi quadri, e servirmene per raccontarlo, è stato il pensiero immediatamente successivo. Ritengo che la maggior parte di questi siano molto “cinematografici”: LUSSURIA cita il Seven di Fincher, così come UNA VENERE OCCIDENTALE contiene chiari omaggi ad Arancia meccanica di Kubrick; ma potrei citarvi il ciclo di HONI SOIT per la gestione della luce e la composizione dello spazio visivo. I quadri sono una presenza costante nel film (come è giusto che sia), li vediamo sullo sfondo o sottoforma di sogni e allucinazioni, ma sempre posizionati secondo un senso logico dettato dalla mia visione personale. Visione che è stata in parte influenzata anche dal film Nomadland. La peculiarità di questo film è che ha un cast composto per la maggior parte da attori non professionisti come i veri nomadi, compagni di viaggio della protagonista Fern (Frances McDormand). Io ho voluto fare esattamente l’opposto: protagonista non professionista coadiuvato da attori professionisti. Sapevo di poter contare sul carisma di Valerio e sulla sua verve poliedrica, nonché su un volto molto videogenico. In generale mi sono sempre fatto guidare dalla pancia e dalla mia curiosità. La definizione più calzante del risultato finale del mio lavoro l’ho trovata, però, soltanto durante la mia successiva esperienza in Danimarca nell’ambito del CPH:DOX (2024), festival cinematografico danese incentrato sui film documentari. “Parafiction”, “fictiononfiction”, un mash-up fluido delle tradizionali tecniche documentaristiche, gli altri generi cinematografici e la pura sperimentazione, che mi ha permesso di creare ad hoc nuove situazioni sfidanti per Valerio, o di pescare dal suo passato per fargli rivivere determinati momenti e sensazioni, ottenendo spesso una sua partecipazione attiva al processo creativo. È stata poi una installazione composta da un obelisco, che Valerio ha eseguito intorno al 2012, e di cui sono venuto a conoscenza nel corso delle riprese, a spingermi ad adottare un’altra tipologia di linguaggio più vicina al videoclip. Mi serviva un cambio di registro importante, che si è poi tradotto in un montaggio frenetico arricchito da effetti video glitch; è stato anche un modo per strizzare l’occhio ai più giovani nel tentativo di coinvolgerli maggiormente nelle tematiche trattate. La videoarte, a dir la verità, non la riscontro molto, se non in sporadici momenti, come ad esempio la proiezione in sequenza dei quadri che appartengono al ciclo sulla mitologia delle SIRENE sulla figura di Eléna.
Come è avvenuto il tuo incontro con Valerio De Filippis, un artista dalla personalità tanto marcata? E ad attrarti, in lui, sono stati più i trascorsi biografici, l’approccio poco convenzionale all’arte, la comune fascinazione per il versante “dark” dell’esistenza o un po’ tutti questi elementi?
Entrai in contatto prima con i suoi quadri, circa quattro anni fa, durante un evento organizzato nel suo vecchio atelier al Pigneto, e ne rimasi molto colpito, in particolare da uno che mi ricordava il Leatherface di Non aprite quella porta (FIGURA CON SCHEGGE del 2013). Chiesi a qualcuno dei presenti chi fosse l’autore, ci hanno presentati e da lì abbiamo cominciato a frequentarci. Finii per coinvolgerlo nel mio precedente documentario Il terrorista nella testa (poi andato in onda su Rai2 e attualmente disponibile su RaiPlay) facendogli fare un breve cameo, in cui Valerio doveva fare una sorta di identikit, cercando di dare una forma al disturbo ossessivo compulsivo del ragazzo protagonista. A quel punto, sentii la necessità di approfondire maggiormente il suo personaggio e di dedicargli più minutaggio. Così gli proposi l’idea di girare un film su di lui, desideroso di conoscere i suoi trascorsi e tirar fuori il suo dark side. Ricordo che mi disse che avevo “un fare molto psicoanalitico nei suoi riguardi”.
Si accennava all’elemento “dark”: quasi all’inizio del film si cita Seven di David Fincher, in più Valerio è autore di un lungometraggio sperimentale ma molto cupo come The Mirror and the Rascal, mentre i tuoi esordi sono contrassegnati da film horror anche a episodi… ci confermi, quindi, che la comune passione per tale genere, per un determinato mood, è stata importante nel definire lo stile di Vae Victis?
Salvo rari casi (visto che lo abbiamo menzionato, Mindsurf, ad esempio), l’horror è un elemento che ricorre in tutta la mia filmografia, anche in quei film che apparentemente sembrano molto distanti. La possibilità di portare qualcosa di davvero provocante sullo schermo ti costringe a chiederti se vuoi davvero caricare quella cosa di ulteriori significati o meno. Non ho pensato troppo alle conseguenze, volevo fare qualcosa di autentico, dare sfogo alla mia curiosità, mettere a nudo l’artista, scoprire la persona che c’è dietro e rispecchiarmi nelle sue opere. Sapevo di trovare terreno fertile in Valerio. Nessun freno, nessuna inibizione. E alla fine ho agguantato l’occasione e mi sono lasciato andare, servendomi di uno dei generi che conosco meglio. Non so se Valerio abbia o meno una vera e propria passione per l’horror, sicuramente ama il cinema. Non definirei Vae Victis un horror in senso stretto, ma quando proposi a Valerio di fare il film, ho pensato che potesse interessare in primis gli appassionati di questo genere, per i suoi trascorsi biografici e il suo dark side.
Come sono avvenute in Vae Victis le scelte musicali, a partire dai brani dei Blokulla che ci hanno particolarmente suggestionato?
I brani di Blokulla sono strettamente legati alla vita e ai gusti di Valerio, sovente sono impiegati dallo stesso come sottofondo musicale per dipingere. L’aspetto suggestivo è che sembrano siano stati scritti ad hoc per il film, quando invece sono antecedenti. Il loro collocamento all’interno della struttura filmica ha un qualcosa di “trascendentale”, io e Valerio ci siamo sempre trovati d’accordo su dove posizionarli. A Giacomo, l’autore delle altre musiche, ho invece lasciato piena libertà creativa, chiedendogli di sperimentare e di non discostarsi troppo dal mood generale del film e dalle musiche di Blokulla.

Valerio De Filippis in primo piano
Piccolo focus su Valerio De Filippis: dopo la realizzazione del film, hai continuato a seguire i suoi progetti artistici? Sappiamo ad esempio di un nuovo atelier, su cui sta puntando molto….
Sì, continuiamo a frequentarci, legati da una stima reciproca. Il film ha dato nuova linfa e nuovi stimoli a Valerio, e ovviamente sono molto contento di questo. Oltre allo spostamento dal Pigneto a Testaccio (il nuovo atelier si trova in Via L. Vanvitelli, 23 – Studio E.M.P.), si è messo nuovamente in gioco con un nuovo progetto pittorico che riguarda il transumanesimo. E questo nuovo “ciclo” si origina proprio da uno dei quadri che vediamo nel finale di VAE VICTIS (PROGETTO PER UN FETO BIONICO TRANSUMANO DEFORME).
Per finire, quali sono state le prime reazioni del pubblico a un film per certi versi così estremo? Ha già partecipato a qualche festival? E come proseguirà ora la distribuzione?
Per ora Vae Victis ha debuttato il 25 novembre 2024, durante la 78ª edizione del Festival Internazionale del Cinema di Salerno, nella prestigiosa sezione lungometraggi. Non smetterò mai di ringraziare la città di Salerno per l’opportunità. Il film è scomodo per i temi che affronta e audace nella struttura, ne sono consapevole, ma non ho voluto censurarmi (e – diciamocelo – non avrebbe avuto senso con un personaggio come Valerio De Filippis). Ho molta fiducia nel pubblico in generale, e nel mercato oltreoceano. Per l’Italia ci sarà molto da lavorare.
