Unico film di produzione italiana alla 75° edizione della Berlinale, Canone effimero dei fratelli Massimo e Gianluca De Serio è il risultato di una ricerca minuziosa e piena di amore che rimane forse troppo incatenata a sé stessa.
Presentato al Festival di Berlino nella sezione Forum.

Undici quadri per undici storie
Un viaggio etnomusicologico attraverso una terra sconosciuta: un’Italia dalle tradizioni frammentate, spesso tramandate solo oralmente. Undici testimonianze della tradizione locale giunte fino a noi, provenienti da regioni diverse come la Calabria, le Marche, la Liguria e la Sicilia.
Nel documento cinematografico di Massimo e Gianluca De Serio vi è la conservazione di un telaio di canzoni, strumenti intagliati a mano, racconti e leggende. Nella sua ricerca etnografica sui canti e le tradizioni musicali italiane Canone effimero si fa passaggio, in 4:3, della tradizione e della sua sopravvivenza, risalendo l’Italia per le montagne, dai Nebrodi agli Appennini.
Mentre la neve ascende dal suolo verso il cielo, lo spettatore torna indietro, avvicinandosi al passato socioculturale di un’ Italia musicalmente feconda e profondamente segnata da analogie e differenze: di tradizioni, di dialetti, di leggende e di realtà.
Canone effimero vuole essere canto che racconta di sé stesso, quadro etnomusicale, testimonianza di un mondo che sta svanendo in una direzione, ma che sta al contempo rinascendo per altre vie, verso altri spiragli di gioventù.
Il mondo che racconta è quasi scomparso.
Scomparso perché custodito da una memoria storica anziana. Quasi perché mostra timidamente una nuova retroguardia giovanissima e appassionata. Un passaggio di consegne che tocca abiti e culture.

Canone effimero è forse un racconto troppo amato
Per chi conosce il documentario italiano troverà nel film dei fratelli De Serio un buon rappresentante del panorama contemporaneo: esteticamente curato e pensato con attenzione, Canone effimero ricalca temi e filie care al cinema del reale nazionale. Siamo un paese di tradizioni, di vecchi e di ricordi che si riuniscono intorno alla musica come strumento (e quindi tradizione di creazione), come performance e socialità ( tradizione culturale e di abiti) e come costume ecclesiastico (tradizione religiosa).
Il problema sorge quando la vicinanza e l’affetto verso il racconto, la sua scoperta e i suoi protagonisti diventano troppo forti da eccedere nella lunghezza e nel focus. È un film che non ha voluto mancare in niente all’interno del suo discorso, diventando un monumento di se stesso: granitico e a tratti saturo.
Nella sua fotografia, pulita ed elegante, eccede di una certa impersonalità. Il suo stesso lirismo, il desiderio di elevare tutti i personaggi, di metterli in luce, di dargli importanza e bellezza, finisce per creare un divario di ghiaccio tra lo sguardo, l’udito e l’immagine. Un documentario che nella sua purezza risulta scarico e che nel suo amore verso i testimoni e gli attori sociali interpellati diventa da essi ricolmo, fino quasi a strabordare.
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