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‘My Stolen Planet’: un atto di resistenza attraverso le immagini

La regista iraniana Farahnaz Sharifi utilizza immagini private e materiali d’archivio per raccontare una storia di oppressione e memoria.

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All’interno della terza edizione dell’Unarchive Found Footage Fest è stato proiettato My Stolen Planet, documentario della regista iraniana Farahnaz Sharifi, in esilio in Germania dal 2022. Il festival, dedicato al riuso creativo di immagini e materiali d’archivio, si propone come spazio di sperimentazione politica e visiva. Non a caso, la direzione artistica afferma «Muoviamo (dall’) archivio come potente spazio progettuale, per ri-assemblaggi non convenzionali». È in questo contesto che il film di Sharifi si inserisce come esempio di cinema d’archivio che diventa urgenza politica e testimonianza personale.

Una storia personale che si fa collettiva

Farahnaz Sharifi nasce in Iran nel 1979, anno cruciale della Rivoluzione Islamica. Quella data segna un prima e un dopo nella storia del paese, un confine netto tra libertà e repressione. Il film intreccia la vicenda personale della regista con quella del suo popolo, dando voce a una memoria intima e collettiva, costruita attraverso filmati privati, fotografie, videocassette e materiali d’archivio acquistati nel corso degli anni. Il risultato è un racconto lineare che scava con lucidità tra emozione, verità e lotta. My Stolen Planet fa riemergere, attraverso la memoria, ciò che era rimasto inascoltato e nascosto.

Il potere politico delle immagini

Nel film, le immagini non sono mai neutre. Sono armi di resistenza, strumenti per recuperare un passato che il regime ha cercato di cancellare, criminalizzare, rimuovere. Farahnaz filma, colleziona, riordina e ri-espone: è questo il suo modo di combattere. Le immagini diventano un atto di denuncia, una forma di testimonianza e un omaggio per coloro che si è cercato di cancellare dalla storia. In un presente represso, un passato libero può essere pericoloso, perché rappresenta l’alternativa. Ed è proprio questo che il potere teme: non solo la ribellione del presente, ma la memoria di un tempo in cui la libertà esisteva ed era possibile.

Un’assenza che pesa: il potere fuori campo

Il film lascia volutamente poco spazio agli oppressori. Non si vedono uomini con armi, né leader religiosi o politici. Il potere rimane una presenza fuori campo, opprimente ma sfumata, più una forza invisibile che un nemico identificabile. I veri protagonisti sono i corpi resistenti: donne che danzano, che si filmano, che si rifiutano di sparire. Gli smartphone diventano telecamere di lotta, archivi portatili contro l’oblio. In questi gesti proibiti – ballare, scoprirsi, ridere, parlare – si cela la speranza di un futuro diverso.

Un confronto doloroso con l’Occidente

Dal punto di vista di chi guarda il film da questa parte del mondo, emergono sentimenti contrastanti: impotenza, senso di colpa, privilegio. Come si può godere della propria libertà sapendo che altrove ci sono donne che vengono uccise per una parola detta ad alta voce? Sharifi non indulge mai nel vittimismo, né si abbandona a facili accuse contro la religione. Al contrario, il film mostra che non è l’Islam a reprimere le donne e gli uomini iraniani, ma un sistema di potere autoritario e violento, che ha strumentalizzato la religione per legittimare il controllo sociale. Questa forma di oppressione non è esclusiva di una cultura o di un credo specifico: è una costante trasversale di ogni società patriarcale e conservatrice. È proprio in questa prospettiva che My Stolen Planet diventa un film scomodo: non perché ci accusa, ma perché ci interroga, costringendoci a fare i conti con una realtà che, anche se lontana, ci riguarda. Perché la libertà, quando è negata a una parte dell’umanità, smette di essere un diritto garantito e diventa una responsabilità collettiva.

Memoria come lotta

My Stolen Planet è un film necessario. È un documento politico, ma anche un’opera profondamente poetica. La sua forza sta nel raccontare l’intimità della resistenza, nel mostrare che anche i video di famiglia, anche un filmino dimenticato, possono diventare atti di rivolta. Sharifi ci ricorda che filmare è esistere, e che collezionare immagini può significare non scomparire. In un’epoca in cui i regimi riscrivono la storia, le immagini diventano custodi di una verità che non può essere cancellata.

My Stolen Planet

  • Anno: 2023
  • Durata: 82'
  • Distribuzione: JYOTI Film Gmbh
  • Genere: Documentario
  • Nazionalita: Germania/Iran
  • Regia: Farahnaz Sharifi