Per un film come Family Therapy partecipare in concorso al Trieste Film Festival è stato quasi come “tornare a casa”, visti e considerati i legami dell’autrice, la slovena Sonja Prosenc, con l’Italia e in particolare con tale festival.
Non sono certo mancate le soddisfazioni per questo suo film, selezionato dalla Slovenia per rappresentare il paese agli Oscar 2025 e reduce sia da un trionfo al newyorkese Tribeca che dal premio CICAE al Sarajevo Film Festival. A partire dal 28 gennaio Family Therapy ha iniziato un piccolo tour nelle sale italiane, con le prime tappe previste a Milano, Gorizia e, per l’appunto, Trieste. Abbiamo approfittato di questa sua presenza qui per fare il punto della situazione con la brillante cineasta slovena, analizzando insieme stile, tematiche e altri spunti creativi presenti nella sua opera.
Il film è al Cinema.

Una co-produzione internazionale curatissima nella forma
Come si è sviluppata questa coproduzione internazionale e cosa pensi dell’interazione con la controparte italiana, sia per quanto riguarda le riprese sul territorio che per altri aspetti produttivi?
La coproduzione internazionale di Family Therapy è un’esperienza che ci ha arricchito molto. Le riprese in Italia ci hanno fornito location incredibili che hanno valorizzato significativamente la narrazione. La moderna casa di vetro, che abbiamo rappresentato come il vivaio “autocostruito” dalla famiglia, si adattava perfettamente ai temi dell’isolamento e del controllo del film. L’ambientazione italiana offriva non solo il fascino estetico ma anche la risonanza simbolica che cercavamo. Abbiamo avuto il privilegio di lavorare con un talentuoso team creativo e tecnico italiano, e il generoso sostegno del Ministero italiano, della FVG Film Commission e del FVG Audiovisual Fund ha giocato un ruolo cruciale nel dare vita alla nostra visione. Il loro contributo, insieme alla collaborazione di Incipit Films, è stato determinante. Incipit Films è ora diventato uno dei nostri partner costanti e fidati, tale relazione ha notevolmente influenzato il successo del lungometraggio.
In Family Therapy abbiamo riscontrato umorismo e critica sociale, espressi in forme che apprezziamo molto. Come è nata la sceneggiatura?
La sceneggiatura di Family Therapy nasce da una miscela di ricordi personali, osservazione e desiderio di esplorare la condizione umana in una cornice satirica. La scintilla iniziale è nata da un ricordo d’infanzia dell’auto della mia famiglia che prendeva fuoco sul ciglio della strada e dall’indifferenza degli automobilisti di passaggio che non si fermavano per aiutare. Quel momento è rimasto con me e si è evoluto in un’indagine più profonda sul comportamento umano: su come spesso ci ritiriamo nelle nostre bolle per proteggerci dal disagio o dalla responsabilità. Fin dall’inizio è stato importante per me non puntare il dito o fare moralismi di sorta. Volevo invece usare l’umorismo e l’autoironia come strumenti per incoraggiare il pubblico a riconoscere la possibilità di prendere decisioni simili a quelle dei personaggi del film, anche se non è piacevole ammetterlo. La discrepanza tra i nostri valori e il modo in cui ci comportiamo effettivamente, di fronte a situazioni scomode o inaspettate, è diventata un tema importante. Man mano che la storia si sviluppa, l’attenzione del film si sposta gradualmente dalle questioni sociali più ampie alla condizione umana, andando oltre la satira per rivelare i personaggi come individui complessi e vulnerabili.

Ironia e finezze interpretative
Un’altra cosa che abbiamo davvero apprezzato è lo stile del film. Sia per l’ironia strisciante verso le classi agiate, sia per la tipologia delle inquadrature e della messa in scena, ci ha ricordato un po’ il cinema di Ruben Östlund… c’è anche lui tra i tuoi punti di riferimento? E quali sono i tuoi modelli cinematografici?
Apprezzo il confronto con certi autori contemporanei, in particolare la loro capacità di bilanciare umorismo, disagio e critica sociale incisiva. Anche se non direi che siano stati un riferimento, durante la realizzazione di Family Therapy, ci sono certamente delle sovrapposizioni nel modo in cui la satira viene utilizzata per esplorare le contraddizioni e le ipocrisie della società moderna. Ma ciò a cui miravo in questo film era abbinare quella critica sociale a un’esplorazione più intima della condizione umana, rimuovendo gradualmente gli strati di satira per rivelare la vulnerabilità e la complessità dei personaggi, introducendovi empatia. Poiché il mio tipo di cinema è molto visivo, l’ispirazione visiva mi deriva spesso dalla pittura classica. Apprezzo profondamente i registi che si allontanano da una narrazione semplice ed esclusivamente fattuale andando verso una narrazione visiva poetica, creando profondità emotiva attraverso l’atmosfera. Per Family Therapy ciò significava utilizzare la narrazione visiva così da enfatizzare l’isolamento e la fragilità della famiglia, con attenzione alle inquadrature, ai riflessi e all’interazione tra gli ambienti naturali e quelli costruiti artificialmente. Il risultato è uno stile che supporta i temi del film relativi al controllo, alla dissonanza e all’inevitabilità dell’intrusione da parte del mondo esterno.
Un timbro stilistico che ci ha colpito molto è la gestione degli spazi: sembrerebbe, ad esempio, che quella casa luminosa, con le grandi finestre, proiettata verso il bosco, si stagli nel film in beffardo contrasto con le paure e la chiusura mentale dei protagonisti, in particolare la coppia di mezza età. Era tua intenzione accentuare questi contrasti?
Assolutamente sì, il contrasto tra la casa e lo stato mentale dei protagonisti era intenzionale e centrale tra le tematiche esplorate nel film. Volevamo basarci sull’illusione che i personaggi hanno di se stessi: persone che vivono in armonia con la natura poiché in linea con l’ideale di uno stile di vita sano. Aleksander dichiara addirittura di essere “diventato un uomo della natura”, quando si trasferiscono lì. Ma in realtà, quello che hanno creato è più un “vivaio”, un ambiente chiuso e controllato dove possono mantenere “in sicurezza” questa illusione. È uno spazio in cui nulla può veramente entrare e nulla può sfuggire, a simboleggiare le paure e l’isolamento autoimposto. La casa stessa funge da capsula spaziale, che è il desiderio ultimo di Aleksander per la famiglia: completo distacco dal mondo esterno, dove possono esistere in un ambiente curato e sterile. Tuttavia, man mano che la storia procede, l’illusione che hanno costruito e le pareti di vetro iniziano a sgretolarsi, rivelando alla fine la loro fragilità, mentre l’intrusione del mondo esterno diventa inevitabile. Questa graduale rottura della loro “capsula” non solo rispecchia, ma induce anche il disfacimento delle loro dinamiche interne, esponendo le loro paure, contraddizioni e, in definitiva, la loro umanità.
Come hai scelto gli attori? Vorremmo sapere anche come li hai diretti, ci piace ad esempio l’ironia presente in molte situazioni, generata non soltanto da dialoghi taglienti, ma anche da pause, da espressioni facciali eloquenti come nei film muti.
Katarina Stegnar è stata mia collaboratrice costante sin dal primo film, lavorare di nuovo con lei è stato quindi naturale. Da anni poi volevo abbinarla a Marko Mandić come coppia di interpreti. Entrambi sono attori incredibilmente fisici e, a prima vista, i loro personaggi, con tutte le loro inibizioni e barriere emotive, sembrano completamente opposti. Ciò cui abbiamo lavorato e che volevamo ottenere attraverso le prove è un’evoluzione graduale dei loro archi narrativi, passando da queste rigide inibizioni all’espressione di emozioni sempre più viscerali e crude. Durante le prove è successo qualcosa di molto speciale: Katarina e Marko hanno sviluppato una sincronicità fisica in alcuni movimenti, che abbiamo deciso di evidenziare nel film. È diventato un segno sottile ma toccante del legame che un tempo avevano i loro personaggi, prima che andasse perso, probabilmente a causa della crisi familiare legata alla malattia di Agata. Questa sincronicità ha aggiunto un ulteriore livello di profondità alle loro performance, suggerendo una storia condivisa al di là delle loro evidenti disfunzioni.
Agata viene interpretata dalla vera figlia di Katarina, Mila Bezjak, che si è distinta durante il processo di casting per il suo talento naturale e la sua presenza. Sceglierla ha aggiunto un ulteriore livello alla dinamica tra Olivia e Agata. Aliocha Schneider, un giovane attore francese di incredibile talento, che interpreta Julien, ha portato un’energia fresca e contrastante al cast. Il suo personaggio è un outsider in tutti i sensi: la sua presenza sconvolge il mondo controllato della famiglia e Aliocha lo ha saputo catturare magnificamente.
Per quanto riguarda la direzione degli attori, ho prestato molta attenzione alle pause, alle micro-espressioni e al linguaggio del corpo, e tutti e quattro gli attori citati eccellono in questo. L’ironia in molte situazioni nasce non solo dai dialoghi taglienti ma anche dal non detto, da quei momenti silenziosi in cui un semplice sguardo o un gesto sottile la dicono lunga, con la fisicità e le espressioni facciali che portano gran parte del peso emotivo.

Il peso della colonna sonora
Anche la colonna sonora sembra avere un ruolo importante. Puoi parlarcene?
La colonna sonora gioca un ruolo oltremodo significativo in Family Therapy, aggiungendo uno strato unico, inconfondibile al tono e alla narrazione del film. Per questo abbiamo scelto di adattare l’opera barocca King Arthur di Henry Purcell. I nostri compositori Primož Hladnik e Boris Benko hanno fatto un ottimo lavoro con la colonna sonora del film, che abbiamo registrato dal vivo con un’orchestra sinfonica a Stavanger, in Norvegia. La scelta di un pezzo barocco è stata deliberata: non è sentimentale ma dinamica, spinge avanti la storia e agisce quasi come un commento satirico su ciò che abbiamo appena visto in un particolare capitolo. La musica funziona come qualcosa che va oltre un semplice accompagnamento; completa l’ironia del film e ne amplifica i contrasti. Rispecchia la tensione tra le facciate così controllate dei personaggi e le emozioni caotiche che ribollono sotto. In alcuni momenti sottolinea l’assurdità del loro mondo, mentre in altri evidenzia la fragilità delle loro illusioni. Questo approccio ci ha permesso di utilizzare la colonna sonora non solo come elemento che crea l’atmosfera, ma come parte integrante del tessuto narrativo del film.
Infine, sei rimasto colpito dall’accoglienza riservata al tuo film in festival importanti come Tribeca? E cosa ne pensi del fatto che sia in concorso anche al Trieste Film Festival?
L’accoglienza di Family Therapy in festival prestigiosi come il Tribeca è stata tale da farci arrossire e profondamente gratificante. Vedere il pubblico interagire con l’umorismo, l’ironia e la profondità emotiva del film, soprattutto in un ambiente come Tribeca, New York, è stato incredibilmente appagante. Un feedback del genere ha confermato che il film ha risonanza con gli spettatori di tutte le culture, il che è sempre un’esperienza speciale per qualsiasi regista.
Per quanto riguarda il Trieste Film Festival, pare quasi il nostro “festival di casa”. Lo frequentiamo regolarmente, sia per presentare progetti in fase di sviluppo sia per partecipare ai suoi programmi specifici, durante la post-produzione. Quindi essere in competizione proprio lì ha un significato speciale per noi perché è un festival cui ci sentiamo molto legati. È meraviglioso tornare con un film finito e condividerlo col pubblico in un luogo che ha fatto parte del suo percorso.
Family Therapy un ritratto di famigli che non lascia indifferenti