“Gruppo di famiglia in un interno”. Ma quell’interno pare comunicare col mondo esterno, con lo stesso ambiente naturale, attraverso canali che pongono allo scoperto tutte le insicurezze, le paranoie e le fobie del piccolo nucleo famigliare tenuto in osservazione. Spingendo però i protagonisti verso una possibile, magari problematica redenzione.
Passato in concorso al 36° Trieste Film Festival, reduce da un’accoglienza assai calorosa al newyorkese Tribeca Film Festival, Family Therapy (Odrešitev za začetnike, 2024) è pronto ora a sbarcare nelle nostre sale, grazie a una micro-distribuzione che lo porterà in varie parti d’Italia. Il nostro spassionato consiglio è pertanto il seguente: se ne avrete occasione, non perdete la possibilità di ammirare sul grande schermo il film della slovena Sonja Prosenc, frutto di una co-produzione internazionale molto ben concepita, specie qualora vi vogliate soffermare sull’impatto visivo così forte e a tratti quasi ipnotico.
Dal 28 Gennaio in sala con Emera Film.

Odissee famigliari tra la Slovenia e l’Italia
Girato tra la Slovenia e il Friuli Venezia Giulia, Family Therapy aggredisce le difficoltà della famiglia moderna mettendone in luce i vari scompensi, da esorcizzare poi attraverso un lungo e travagliato percorso. Le prime immagini, stilizzate, per certi versi ieratiche, sono il biglietto da visita di due famigliole alle prese con problematiche alquanto distanti tra loro. Delle due la prima è bloccata su una strada dove la loro macchina è in panne, li ha infatti lasciati a terra dopo che il motore ha preso fuoco. Ma nessuno degli automobilisti di passaggio si ferma ad aiutarli.
Tra tutti questi “indifferenti” vi è anche l’altro piccolo clan, quello dei “nuovi ricchi” sloveni intenzionati a raggiungere la lussuosa dimora persa nella Natura, dove anche per assecondare i capricci del “pater familias” di turno (il quale ha da poco lasciato un lavoro molto ben retribuito per inseguire il sogno di diventare uno scrittore importante, nonostante la sua carriera sia ferma a un romanzo d’esordio il cui successo è ormai parecchio datato) trascorreranno un bel po’ di tempo. Sono loro i protagonisti. E ciascun membro di tale famiglia, piccola monade intrappolata da rapporti interpersonali inconcludenti, pare incapace almeno all’inizio di venire a capo delle proprie frustrazioni, dell’insoddisfazione profonda, della difficoltà ormai radicata ad avere un dialogo reale e onesto col prossimo. A partire proprio dal padre, che per egoistico sfizio vorrebbe addirittura far sì che i suoi partecipino a un elitario programmo, destinato a premiare poche selezionate famiglie con un viaggio nello Spazio, senza rendersi conto fino all’ultimo che sono i loro rapporti sul pianeta Terra ad essere ormai incrinati, per non dire in frantumi. Solo acquisire consapevolezza di ciò e infrangere infine, attraverso una serie di catartici eventi, quella posticcia barriera culturale che li separa dalla Natura (sia la loro, che l’ambiente circostante), potrà infondere un barlume di speranza a una serie di relazioni stantie e apparentemente già compromesse.

Una questione di stile
Se i temi di Family Therapy sono decisamente attuali, lo scarto tale da renderlo un film eccellente risiede proprio nello stile adottato da Sonja Prosenc, qui al suo terzo lungometraggio ma con altre ragguardevoli esperienze (principalmente corti e serie televisive) alle spalle. Il suo sguardo sulla crisi dell’ordinamento sociale e famigliare pare muoversi da Teorema di Pasolini per inglobare poi, fortunatamente senza esiti altrettanto tragici, la logica perdente dell’Entschuldigen Sie in Funny Games di Micahel Haneke, vero autodafé della borghesia occidentale. Ma è forse con il cinema di Ruben Östlund che abbiamo riscontrato la parentela più suggestiva, sia per lo humour sotterraneo e sulfureo che contraddistingue i rapporti tra i personaggi (anche in virtù di un approccio interpretativo davvero ottimo, fondato com’è sul non detto, su pause rivelatrici e su altre forme di straniamento), sia per quella lettura degli spazi in cui il contrasto tra “dentro” e “fuori” diventa tanto più emblematico, quanto più s’affida all’immagine relegando i pur taglienti dialoghi in secondo piano. Sono semmai le musiche, così immersive, a completare l’opera.
