È stato presentato in anteprima alla Festa del Cinema di Roma, nella sezione FREESTYLE, il film Nottefonda di Giuseppe Miale Di Mauro, liberamente tratto dal romanzo La Strada degli Americani (Frassinelli), scritto dallo stesso regista con Bruno Oliviero e Francesco Di Leva, che ne è anche protagonista insieme al figlio Mario Di Leva. Adesso il film è presentato al Sudestival.
Ciro è un uomo allo sbando dopo la perdita della moglie. Vuole trovare chi l’ha investita e uccisa sulla strada di notte. Ogni notte. In questa ricerca ha perduto sé stesso, il senso del tempo e la possibilità di far vivere una vita normale al figlio Luigi, tredicenne, un ragazzino costretto a crescere in fretta per trattenere il padre dalla discesa negli inferi (Fonte: Sudestival)
Un film che nasce dall’esperienza e dall’incontro tra Francesco Di Leva e Giuseppe Miale Di Mauro, tra i fondatori del NEST, il teatro di San Giovanni a Teduccio nato dieci anni fa nella vecchia palestra di una scuola abbandonata, in uno dei quartieri più difficili alla periferia di Napoli, grazie agli sforzi di un gruppo di artisti e tecnici napoletani che hanno dato vita a un’operazione culturale e di recupero sociale mirato soprattutto ai giovani. Una realtà in forte relazione con la produzione cinematografica napoletana Mad Entertainment che produce con Rai Cinema in collaborazione con Leocadia, prodotto da Maria Carolina Terzi, Luciano Stella, Carlo e Lorenza Stella. Il film sarà distribuito in sala nel 2025 da Luce Cinecittà.
Nella cornice del Sudestival abbiamo fatto alcune domande al regista Giuseppe Miale Di Mauro.
– Foto di copertina di Gianluca De Vita –
Il legame tra il libro e il film secondo Giuseppe Miale Di Mauro
Il film è ispirato a un romanzo che hai scritto. Avevi già in mente fin da subito di realizzare un film?
Onestamente quando ho scritto il romanzo ho sperato che potesse diventare un film, ma non ho mai pensato che potessi farlo io. Anche perché io fondamentalmente sono un regista di teatro, non mi ero ancora affacciato al cinema, forse più dal punto di vista della scrittura che da quello della regia.

Poi, invece, mi hanno fatto questa proposta e, dopo alcune incertezze, mi sono fatto coraggio e ho accettato. Quando, però, ho detto che avrei preso in mano questo progetto ho chiesto che il resto del cast, ma anche di tutto il reparto tecnico fosse composto da super esperti. Perché tutti, dal primo all’ultimo, dovevano aiutarmi, ognuno con le proprie competenze, ad affrontare questa nuova avventura. Infatti, alla fine, è stato un grande lavoro di squadra, e io devo ringraziare tante persone, ognuna nel proprio ruolo, per avermi aiutato e sostenuto in questa nuova avventura.
Sono contenta che tu abbia accettato di dirigere questo film perché, forse anche grazie alla tua esperienza nel teatro, non si percepisce il fatto che sia un’opera prima. Anzi hai fatto delle scelte che rendono la regia parte integrante della storia.
Questa è una prerogativa che io cerco di avere anche a teatro, come regista. A me non interessa il virtuosismo, non interessa far vedere a qualcuno quanto sono bravo a fare il regista. Quello che mi interessa è raccontare la storia, quindi il mio unico impegno è quello di mettere tutto quello che c’è al servizio della storia e degli attori, perché io credo moltissimo in loro e nelle loro performance, che in realtà sono i principali artefici del racconto. E infatti anche qui, ho lavorato proprio in questo senso: il film è sugli attori e lo si capisce anche dalla scelta che ho adottato di stare spesso molto stretti sulle facce degli interpreti, come una ricerca dell’espressione massima che ognuno può tirare fuori.
A teatro questo privilegio non c’è e qui ne ho approfittato. Poter andare a guardare negli occhi un attore è una cosa che a me a teatro è sempre mancata. E quindi, insieme al team, ho deciso di stare molto stretto sui volti e sulle espressioni. Poi, in realtà, c’è da dire che questa è anche una storia molto claustrofobica e questa scelta mi sembrava un registro giusto per raccontare ciò.
Inquadrature ravvicinate
Con questa risposta hai anticipato alcune cose che volevo chiederti. Anche io ho trovato molto funzionali queste inquadrature molto ravvicinate che mostrano primi piani e volti contriti e tristi. Da una parte li ho visti come un aiuto a entrare in sintonia con Ciro e vedere il mondo dal suo punto di vista, ma dall’altro anche per non farci comprendere realmente quello che accade intorno a lui.
Quella era una sfida importante perché ovviamente quando ho scritto il libro ero molto più libero. Il libro ti dà la possibilità di raccontare con un ampio spettro delle cose a cui chi legge crede inevitabilmente. Per la trasposizione cinematografica, invece, abbiamo ragionato molto su questa presenza, sia in fase di scrittura che poi in fase di messa in scena perché bisognava stare attenti a non sfociare mai nell’inganno.
In questo senso ho ragionato da pubblico e ho fatto moltissima attenzione a questo, a rendere credibile questa possibilità. Poi, senza fare spoiler, c’è chi l’ha capito subito e chi l’ha capito alla fine. Nonostante questo, però, ciò che mi piace molto, è che entrambe le fazioni vivono il film nella stessa maniera e ne sono felice perché avevo paura che questo potesse succedere solo a una parte. Per fortuna entrambi riescono a vivere emotivamente il film nella stessa maniera.

Forse chi l’ha capito subito l’ha fatto perché all’inizio c’è una sorta di indizio, nel senso che siamo immersi subito in questa storia con queste immagini che si sovrappongono. C’è un vedo-non vedo che ci permette di capire che c’è stato qualcosa, anche se non sappiamo cosa. Poi ci sono anche altri elementi, però fin da subito è come se, in qualche modo, ci avvisassi.
È esattamente quello che ho provato a fare: lanciare degli allarmi, cercando però di rimanere in una possibile veridicità della situazione.
Claustrofobia nel film di Giuseppe Miale Di Mauro
Prima hai parlato anche di claustrofobia e credo che questo lo si veda anche dal rapporto tra gli ambienti e il protagonista. Ci sono prevalentemente l’auto e la casa che sono luoghi chiusi e stretti, nei quali Ciro si sente in trappola. Ma in parte probabilmente si sente così anche in alcuni luoghi aperti. Uno su tutti il terrazzo, da quello iniziale a tutti quelli che si avvicendano nel corso del film. Chiunque si affacci da questi luoghi ha una visuale sul mondo che è rappresentato come qualcosa fatto principalmente di strade, a tratti pericolose, e di poche presenze umane. C’è quindi una sorta di contrasto tra spazi e personaggi?
Assolutamente sì e mi fa molto piacere che tu l’abbia notato. Insieme a Carmine Guarino, che è lo scenografo del film e anche uno dei componenti del NEST (il nostro spazio teatrale), abbiamo lavorato in questo senso. Mi piace parlare al plurale perché siamo in tanti ad averlo reso possibile. Tra questi c’è anche Carmine, uno scenografo molto importante nel cinema, che ha cominciato con noi in quello spazio teatrale e che adesso, nonostante i suoi grandi impegni e le sue tante cose da fare, è tornato per aiutare questo nostro film.
Tornando alla tua domanda ti dico che incredibilmente quel terrazzo lì è lo stesso di dove c’è poi l’appartamento. Eravamo alla ricerca di qualcosa che potesse contrastare questa chiusura continua del film. Volevo cercare di contrapporre questa chiusura a uno spazio, però non doveva essere uno spazio qualunque, bisognava avere uno sguardo altro. Ma non riuscivamo a trovare niente che facesse al caso nostro.
Per caso, un giorno, siamo saliti su quel terrazzo per capire se potevamo utilizzarlo per metterci delle attrezzature. Appena saliti, comincio a guardarmi intorno e dico a Carmine questo è lo spazio, è questo perché da qui si vede tutta Napoli da lontano. Quindi è come se la vita si vedesse da lontano. Siamo all’ultimo piano ed è vertiginoso, quindi c’è questa paura di guardare la strada, di guardare la vita. Inoltre abbiamo deciso di far accadere proprio sul terrazzo delle cose talmente strane e bizzarre che hanno reso questo luogo ancora più asettico rispetto al tentativo di vita che racconta.
Sul terrazzo proviamo a raccontare lui che aggiusta la luce e quindi un momento in cui sembra che lui stia tornando alla vita. Poi c’è l’incontro con quella ragazza e quel momento di ballo con le luci del porto, i rumori dei macchinari. Mi sembrava qualcosa in contrasto totale con quello che avevamo visto, ma anche interessante perché era un tentativo di provare a riprendersi la propria vita. E questo si collega al finale che abbiamo scelto e che penso sia un finale davvero aperto per provare a interrogarsi sul famoso cosa succederà dopo.
Una scena positiva
Se dal terrazzo vediamo questo strada priva di auto, di persone, di vita, c’è una scena, forse una delle più belle e potenti di Nottefonda, dove avviene il contrario. Mi riferisco alla scena in cui Ciro è sul letto con il figlio Luigi e si confidano. Per come l’hai costruita è una scena piena di speranza, anche perché è la più luminosa del film.
In quella scena lì, tra l’altro, c’è anche una battuta che vuole essere un altro segnale. Mi riferisco a quando Ciro dice al figlio Voglio che tu diventi un politico, un fisico, un matematico, e il figlio risponde Io non divento proprio niente.
Per questa scena volevo un’inquadratura che fosse poco realistica perché nel mio modo di concepirla ho pensato che quel modo di vederla fosse uno sguardo. Per me quello è lo sguardo della madre, di questa donna che guarda il marito. E questo si collega al fatto che lui quando è al cimitero, le chiede Ma tu mi stai guardando? E se mi stai guardando, che stai pensando di me?.

Quando venne fuori questa battuta, io pensai, in sceneggiatura, che ci dovesse essere un momento (un’inquadratura) in cui possiamo immaginare che lei lo stia guardando. Ho pensato a quella perché è un momento molto confidenziale.
Non avevo considerato il fatto che potesse essere il punto di vista della madre, ma mi ha colpito perché, oltre a essere completamente diversa da tutto il resto del film, è indubbiamente una scena positiva.
L’importante è che sia comunque arrivata. A volte immagini delle cose che, per fortuna, non arrivano esattamente come le hai immaginate, ma lasciano comunque qualcosa. Credo che questa sia anche un po’ la magia di questo mezzo.
La figura femminile nel film di Giuseppe Miale Di Mauro
Visto che abbiamo chiamato in causa la figura della madre, si può considerare come colei che tira le redini di questa storia (e di questa vita)? C’è questa notte che sembra non finire mai, è sempre buio, lui vive praticamente di notte, per tutti i motivi che sappiamo, e c’è poca luce in generale. Quella poca luce, però, potrebbe essere vista come la luce in fondo al tunnel, ma anche metaforicamente come la moglie e madre.
Prima di rispondere a questa domanda ti racconto una cosa che ho fatto poco prima di cominciare le riprese del film, che è stata un’esperienza di immersione che non avevo mai fatto. Una cosa che mi ha colpito moltissimo è che quando vai molto sotto, a un certo punto alzi la testa e hai quella sensazione di luce flebile che sembra lontanissima e quindi stai negli abissi della notte. Io pensavo al film quando ero là sotto ed ecco che quella è la notte mentre lassù c’è la luce che ti riporta al mondo. Ho raccontato, poi, questa sensazione a Michele D’Attanasio, e insieme abbiamo lavorato su questo buio, ricordandoci che, da qualche parte, una lucina c’era e ci doveva essere sempre. L’idea era quella di dire che c’era sempre una lucina che si poteva raggiungere, come nei fondali. Il problema è che a un certo punto quando sei sotto devi decidere di andare su, perché altrimenti rimani a fondo. E quindi anche lui a un certo punto decide di raggiungere quella lucina. Per me, fin da subito, la luce ha simboleggiato la moglie. Tant’è che, senza ovviamente esagerare, anche l’immagine della moglie è sempre molto luminosa, molto angelica, molto aurea.
È vero, perché il film in generale è buio e, appunto, claustrofobico, però c’è sempre un minimo di luce. Trovi degli escamotages anche interessanti per farla sempre essere in scena in qualche modo.
Sì, per esempio abbiamo anche lavorato moltissimo per la luce in macchina, quella che sta sotto il tettuccio e che si aziona quando si aprono le portiere. È una luce che lui ha sulla faccia e poi lentamente si spegne. Una piccola luce presente durante questo suo stare dentro al dolore, a quella situazione.
Luigi come grillo parlante
Abbiamo analizzato la figura della madre e della moglie. Adesso non posso non chiederti qualcosa a proposito di Luigi, il figlio di Ciro. Se da una parte c’è la figura femminile che è onnipresente attraverso questa luce che cerca di indirizzare e guidare Ciro al meglio, dall’altra parte c’è la figura del figlio. Un figlio che mi verrebbe da definire come una sorta di grillo parlante. Tra i due è lui che sembra il genitore, quello più maturo, in grado di aiutare il padre.
Senza dubbio. In un certo senso Luigi è la parte razionale che Ciro ha completamente perso. Luigi è colui che prova a tirare il padre per la giacchetta e riportarlo sui giusti binari. Ed è l’unico che può farlo dato il legame che c’è tra loro. Spesso mi è capitato che mi dicessero è incredibile come somigli a tuo padre e credo sia capitato praticamente a tutti. Questo perché fondamentalmente noi siamo parte dei nostri genitori. E quindi ovviamente Luigi è parte di Ciro e nel caso di Nottefonda questo figlio che resta per volontà del padre è l’ancora di salvezza di quest’ultimo. Luigi è il pezzo di legno a cui Ciro si aggrappa nel naufragio totale della sua vita. E quel pezzo di legno lo porta poi alla salvezza.

In questo senso Luigi riesce a ribaltare lo stereotipo classico che ci farebbe immedesimare con il padre, anche perché protagonista assoluto. Il figlio, essendo la parte razionale, è colui con il quale è più facile entrare in sintonia.
Questo è uno dei suggerimenti che io davo a Mario Di Leva (l’interprete di Luigi, ndr). E poi c’è questa particolarità molto interessante di lavorare con un padre e un figlio veri (Francesco Di Leva e Mario Di Leva sono padre e figlio nella realtà, ndr). Con questo fatto loro ovviamente si portavano da casa un rapporto che con un attore adulto e un attore bambino non imparentati avrebbe richiesto mesi di lavoro per prepararlo. In questo senso, con loro, gran parte del lavoro era già fatto. Oltre a questo quello che ripetevo sempre a Mario era Comportati come papà si comporta con te.
Ed è stato molto bravo ad assimilare questa cosa. Lui è bravissimo, ha talento e soprattutto ha una capacità di conoscere, già alla sua età, il mestiere della recitazione anche perché è nato in quel mondo. Lui non ne conosce un altro se non quello, quindi per lui è naturale pensare e fare determinate cose. E questo è stato un grande aiuto alla costruzione del loro rapporto.
Francesco e Mario Di Leva
La domanda che ti avrei fatto, e che ti faccio comunque, dopo questa è come è stato lavorare con due attori che sono padre e figlio anche nella vita vera.
Ti posso rivelare che è stata proprio una precisa volontà nel senso che quando abbiamo cominciato a lavorare al film, ma anche prima di scriverlo, con il produttore ci siamo detti che dovevano essere Francesco e Mario. E, a dirla tutta, abbiamo anche velocizzato il lavoro per arrivare a girarlo a stretto giro in modo che Mario avesse un’età giusta (anche perché a quell’età crescono velocemente e perdere un anno sarebbe stato magari problematico).
Ed è stata una scelta azzeccata. Entrambi sono davvero bravi in ruoli tutt’altro che semplici. Se a Mario va riconosciuto il grande talento nonostante la giovane età, a Francesco vanno fatti i complimenti per un’interpretazione complessa e ricca di sfaccettature.
S, poi c’è da dire che il rapporto che c’è con Francesco è un rapporto ormai ventennale e questo ci ha permesso di fare una cosa che al cinema accade raramente: abbiamo lavorato sul suo personaggio per un anno. Ogni volta che ne avevamo la possibilità, considerando che lavoriamo insieme e abbiamo un teatro insieme e ci frequentiamo spesso, ragionavamo sul personaggio. Siamo passati per tante fasi ed è stato un lavoro molto grosso quello che abbiamo fatto. Ad aiutarci, quindi, c’è stata anche la nostra amicizia e la fiducia reciproca. Grazie a questo sono riuscito a guidarlo in un territorio molto spigoloso perché, per esempio, si poteva cadere facilmente nel melodramma, invece abbiamo cercato di restare molto freddi anche rispetto alla napoletaneità.
Non a caso Martone, che è un nostro padre putativo in un certo senso, quando ha visto il film a Roma lo ha definito Un film incredibile perché sembra un film coreano e non italiano, c’è un rigore in Nottefonda che è poco italiano. Ma su questo ci ho lavorato molto perché non avevo nessuna intenzione di raccontare una storia melodrammatica che spesso fa perdere il fascino del dramma e può renderlo anche un po’ respingente. Questa freddezza un po’ nordica, invece, credo che fosse necessaria per raccontare questa storia. Penso che così facendo Nottefonda possa essere ambientata ovunque. Il fatto che sia Napoli è perché noi siamo napoletani e abbiamo sentito l’esigenza di girarla nel nostro quartiere dove siamo nati e cresciuti e dove abbiamo anche il nostro teatro. Si tratta, però, di una Napoli ripresa in maniera inedita.
Riferimenti e ispirazioni per Giuseppe Miale Di Mauro
È Napoli perché i personaggi parlano in napoletano altrimenti poteva essere qualsiasi altro posto. Non ci sono riferimenti evidenti che vincolano il film in questo senso.
Esatto. Nonostante ci siano le riprese dal terrazzo che mostrano tutta Napoli. In realtà tra le cose che si vedono maggiormente c’è il porto (che non è una connotazione che fa subito Napoli), il centro direzionale con questi enormi palazzi che non richiamano l’idea di Napoli e poi il Vesuvio, ma mostrato in maniera particolare. Inizialmente, quando la montatrice Cecilia Zanuso ha inserito questa immagine del Vesuvio, io avevo un po’ di dubbi proprio per il richiamo evidente alla città. Lei, invece, mi ha convinto perché nel modo in cui veniva mostrato, tra le nuvole e la nebbia, quasi non si capiva di cosa si trattasse.

Ti posso anche dire che il mio film d’ispirazione, di cui guardavo un pezzo prima di andare a girare, è Belfast di Kenneth Branagh, quindi un film che non ha niente a che fare con Napoli, ma un film che raccontava la sua città. Mi sembrava il punto di riferimento perfetto anche dal punto di vista stilistico perché c’era in quel film della teatralità che faceva cinema (poi ovviamente c’è da dire che Kenneth Branagh è un teatrante). Volevo che il mio costruire le scene come le costruisco a teatro non si andasse a perdere e in questo senso ho tratto ispirazione da quel film.
In effetti si possono riscontrare delle similitudini tra i due film, se visti in quest’ottica.
Sì, poi è chiaro che sono due forme di linguaggio completamente diverse, però c’è per esempio il discorso del cinema a teatro e viceversa. In tal senso mi viene da riflettere sul fatto che tanti attori del cinema di oggi vengono dal teatro, quindi mi piace pensare che queste due forme di espressione si stiano avvicinando.
La scelta del titolo
Come mai hai scelto Nottefonda come titolo? È giusto dire che in qualche modo richiama la notte che vive costantemente Ciro, nel senso di baratro, e non solo la notte dell’incidente?
In realtà non ti nascondo che in un primo momento ho anche un po’ lottato per provare a lasciare il titolo del libro (La strada degli americani) anche per il film. Poi ho capito che in realtà non era più giusto perché il libro gira intorno a quella strada specifica e quindi aveva un senso in quel contesto. Nel film, invece, non ce l’aveva per cui il titolo non era. Nottefonda è venuto fuori casualmente parlando, mentre stavo spiegando la vicenda dicendo qualcosa del tipo Il personaggio si muove in questa notte fonda.
Quindi è arrivato un po’ come il terrazzo, quando meno te lo aspetti.
Esattamente. Quando lo proposi come titolo fu subito accettato da tutti e lo trovarono tutti molto congeniale. Ora mi sembra il titolo più giusto per il film perché non ne saprei trovare un altro.
Sono Veronica e qui puoi trovare altri miei articoli