Ripete spesso la parola esigenza. Esigenza di dare voce a qualcosa, ma anche di trovare il suo posto nel mondo. E con il suo ultimo lavoro, I nostri giorni, una storia dal sapore “scuro”, quasi thriller, Jacopo Marchini il suo posto nel mondo l’ha trovato. Direttore della fotografia, regista e anche produttore. Uno che il mondo lo racconta attraverso le immagini, graffiante e controcorrente come la casa di produzione che ha fondato insieme alla compagna e socia Martina Borzillo, la Movi Production. Del resto ogni regista guarda il mondo e ne rappresenta una visione nelle storie che racconta attraverso i propri occhi. E in questa intervista Jacopo Marchini ricostruisce quello che è stato il suo percorso, mettendo a nudo le sue fragilità e anche le sue ambizioni che lo hanno portato, oggi, a realizzare quella che è forse la sua opera più personale e autentica.
«Argomenti infiniti, cura meticolosa dei dettagli, atmosfere cupe e tanta introspezione»
Il suo ultimo cortometraggio, I nostri giorni, ha un sapore intimo, personale, a tratti anche terapeutico. Con che spirito ha affrontato questo lavoro?
È stato un progetto nato da un’esigenza. Avevo bisogno di dire delle cose che spero siano arrivate a destinazione. Da sempre cerco di trovare il mio posto nel mondo ma non è facile, soprattutto quando vai a scontrarti con modi di vivere differenti, nelle grandi metropoli o in grandi contesti industriali dove sei chiamato a dare il 100% su tutti i fronti. Mi rendo conto che stiamo andando incontro a un’alienazione costante e continua. Per questo ho deciso, insieme alla mia compagna, di prendere casa fuori Roma, proprio per stare lontani dal caos della Capitale. E questo ci ha permesso di vivere la vita un po’ al rallentatore. Abbiamo smesso di essere liberi quando il telefono ha smesso di avere un cavo e, noi, abbiamo avuto la fortuna di essere stata l’ultima generazione offline (io sono del 1990 n.d.r.). Osservando il mondo oggi mi accorgo di quanto sia difficile riuscire a capire quale sia il proprio posto nella società, anche secondo le proprie propensioni e attitudini. È difficile essere accettati per quello che che si è, c’è un desiderio costante e malsano di apparire piuttosto che di essere. E questo progetto è stato appunto un grido. I nostri giorni non è una storia positiva, lo diventa, e solo parzialmente, solo nel finale quando molti dei giochi sono stati fatti. È una tragedia che porta però a una riflessione intrinseca e spero che questo tipo di progetti – in stile Dramma/Thriller sociale – riescano a far riflettere su chi siamo e cosa vogliamo essere, in modo da iniziare a costruire un mondo più accettabile e sostenibile per il genere umano. Siamo fatti principalmente di esigenze, di fragilità. Non siamo robot costruiti per funzionare. Sto sviluppando appunto anche un altro progetto sull’intelligenza artificiale e sulla sua pericolosità. Affronto quindi un nuovo aspetto sociale, anche qui filtrato dal mio stile crudo e cupo. Forse banalmente realistico.

A proposito di aspetto sociale, ne I nostri giorni si intrecciano tre storie che affrontano tematiche sociali diverse: l’Alzheimer, la dipendenza e la violenza che si trasforma in vendetta. Com’è nata l’idea di questo intreccio?
Nel momento in cui abbiamo iniziato la scrittura di questo progetto io e la mia compagna aspettavamo una bambina e questo ha sicuramente influenzato la creazione e anche la scrittura dell’opera, perché la prima cosa che ho immaginato era che potesse succedere qualcosa alla bimba che aspettavamo. Questo pensiero ha condizionato totalmente il mio concetto di perdita intesa anche come perdita del controllo. Il discorso delle dipendenze è una metafora di quello che potremmo diventare se continuiamo ad accettare di fare ciò che ci viene detto. I nostri giorni ha una storia forse anche troppo elaborata per essere racchiusa in un cortometraggio e quindi ci serviva un espediente che massimizzasse l’aspetto della dipendenza e così si è aperto tutto un mondo parallelo. La donna che soffre di Alzheimer nel corto, ovvero la madre dell’avvocato, è stata inserita, anch’essa come metafora, perché rappresenta una donna che ha rincorso i soldi per tutta la vita togliendo così tempo al figlio. Solo alla fine si rende conto di non essere stata una buona madre, ma ormai è troppo tardi per tornare indietro e recuperare il rapporto. Non ci pensiamo mai, ma perdendo la memoria perdiamo veramente tutto perché l’unica cosa che ci rimane e che possiamo lasciare al mondo sono i ricordi. E questo è anche il carico aggiuntivo che diamo al nostro protagonista, ovvero l’avvocato, con tutto il suo mondo fatto di dubbi e domande. L’avvocato, il protagonista, rappresenta proprio tutti noi che stiamo cercando il nostro posto nel mondo. Diciamo che c’è un po’ di lui in Jacopo e un po’ di Jacopo nell’avvocato. Non è facile oggi essere un regista emergente con una voce diversa dal coro, soprattutto in Italia. Con la mia casa di produzione, la Movi Production, stiamo infatti portando avanti una piccola rivoluzione.
Come è nata la Movi Production?
È nata da una esigenza: io e la mia compagna e socia, Martina Borzillo, volevamo rappresentare i nostri intenti e le nostre visioni. Volevamo soprattutto dare voce ai nostri progetti in un modo più indipendente e decisionale. Raccontare le nostre storie che non devono per forza essere nostre, nè avere me alla regia. Il nostro obiettivo è quello di creare delle opere che hanno un tono di voce specifico, particolare, che sappiano parlare di emozioni umane e che siano ben curate in tutta la produzione. Abbiamo deciso di produrre meno ma in modo molto più mirato e ambizioso. Poi, da amanti del Thriller, dell’Horror, dello Sci-Fi e del Fantasy, che sono generi minori in Italia, vogliamo dare voce a questi generi cercando di produrli. Una sfida incredibilmente difficile in Italia. Ma un dato importante lo voglio dare. Quest’anno il film che ha incassato di più in Italia è proprio un horror!
Non deve essere facile produrre film indipendenti in Italia, soprattutto dei generi che ha citato prima.
In Italia c’è la tendenza a produrre opere dal contenuto sociale e commedie, ed è difficilissimo uscire da questi due generi. Noi, in un certo senso, ci stiamo riuscendo. Nel caso de I nostri giorni, abbiamo applicato al bando di SIAE in ambito del programma “Per chi crea”, in collaborazione con il Ministero della Cultura, che abbiamo vinto con il massimo del credito ed è stata la prima applicazione che abbiamo fatto a questo bando. Il film tra l’altro era anche abbastanza ambizioso e un po’ sopra le righe rispetto a quello che è il cinema italiano e non abbiamo mai nascosto che sarebbe stato così cupo, nemmeno in fase di presentazione della domanda al bando. Invece abbiamo vinto con il massimo del credito alla prima presentazione; quindi forse qualcosa si sta muovendo. Fortunatamente abbiamo una forte selezione anche per i videoclip musicali da integrare al nostro cinema e che stiamo spingendo tantissimo. Per cui oggi riusciamo a dare una duplice faccia a questa casa di produzione. Anche qui cerchiamo di creare dei videoclip diversi: cerchiamo anche artisti rock, e tutti i sottogeneri del rock stesso, cercando sempre di mantenere la nostra identità diversa, che poi è quella che ci contraddistingue.

Facciamo un passo indietro. Lei è direttore della fotografia. Cosa l’ha spinta a diventare regista? Quando è nata questa passione?
Sono figlio di un fotografo. Sono cresciuto a pane, tempi, iso e diaframmi. A quattordici anni, un po’ per gioco, ho fatto il mio primo servizio fotografico. L’idea di raccontare qualcosa mi ha sempre affascinato. Per un periodo ho avuto la fortuna di fotografare volti immensi come George Clooney, Cate Blanchet, Matt Damon e tanti altri, ma molto presto mi sono reso conto che la fotografia da sola non mi bastava e così mi sono avvicinato al mondo dei video partendo da un aspetto estremamente tecnico e fotografico. Il passaggio alla Direzione della Fotografia è stata un’evoluzione spontanea. Ma non era ancora abbastanza. Sentivo l’esigenza di raccontare qualcosa che non fosse solo soddisfazione visiva di un progetto. Ho iniziato ad avere appunto l’esigenza di raccontare qualcosa di più personale, che avesse un mio tono di voce. Così ho intrapreso la regia. Per questo mi reputo un regista tecnico, proprio perché vengo da un background estremamente tecnico come appunto è la direzione della fotografia. Questo progetto ha tantissima tecnica infatti : abbiamo abbassato le luci e creato un mondo che alla fine è una rappresentazione pittoresca della metropoli moderna. Ne è venuta fuori una sorta di Gotham dove tutto è molto spento, molto gotico. Diciamo che questa è un po’ la mia visione stilistica.
Quindi qual è il suo stile registico e quali sono le sue principali influenze artistiche?
Credo che sono i personaggi a fare la storia, sono proprio le loro reazioni agli eventi a determinare e costruire la storia in sè; quindi il mio approccio è sicuramente molto psicologico. Da sempre subisco il fascino della psicologia e, difficilmente, correggo l’intonazione di un attore. Preferisco invece fare un grande lavoro di pre-produzione per correggere il modo e il perché in cui l’attore deve dire una cosa, perché sta pensando o sta dicendo quella cosa. Cerco di andare molto in profondità, di stratificare. Solitamente dico sempre: “L’intenzione sopra l’intonazione”. Poi curo molto l’aspetto tecnico. Sono molto preciso sulle inquadrature e le determino giorni prima di girare, opero settaggi della cinepresa e movimenti di camera molto complicati. Ad esempio, il cortometraggio I nostri giorni è di 35 minuti e ha quasi 65 VFX, molti dei quali non si vedono neanche. Corrisponde quasi a un film. Abbiamo corretto il mento di un attore perché aveva un leggero spasmo involontario tra una battuta e un’altra, abbiamo corretto un interruttore del muro perché non era in linea con la casa che volevamo rappresentare. La caduta della pistola non è reale perché non c’è nessun’arma, abbiamo simulato l’intero movimento dell’inquadratura della caduta della pistola senza di essa e poi l’abbiamo aggiunta in VFX. Quindi è stato anche quello un calcolo molto preciso. Tutto questo sviscerare i dettagli è proprio il mio stile e porta con sé una costruzione del racconto che le persone percepiscono e assimilano. Tutto ciò rende credibile il progetto in generale. La mia ispirazione principale viene dal cinema di David Fincher che ha un modo di dirigere molto cupo e psicologico.

É riuscito in poco tempo a collaborare con grandi artisti ed etichette discografiche come Sony Music, Warner Music e Universal. Inoltre, nel 2019 è stato riconosciuto come Membro Associato dell’associazione di categoria Autori Italiani della Cinematografia(AIC). Qual è stato il progetto più importante della sua carriera?
Mi reputo una persona estremamente fortunata perché sono riuscito a entrare in determinati meccanismi in modo rapido. L’ossessione e la meticolosità nello studio e nella preparazione dei progetti è stata un po’ la mia fortuna. Mi sono trasferito a Roma nel 2018 e ho realizzato due, tre progetti che mi hanno aperto tanto le porte facendomi guadagnare la fiducia di alcune etichette musicali e produzioni importanti. Credo che la prima sia stata proprio la Warner grazie alla Borotalco. E questo mi ha poi messo davanti diverse possibilità che mi hanno permesso di fondare la nostra casa di produzione, grazie alla quale, a nostra volta, abbiamo avuto la fortuna di collaborare anche con altri registi e produttori. Credo che forse per me la svolta potrebbe essere proprio questo progetto, perché sento che è il primo vero lavoro che, in un certo senso, mi rappresenta a trecentosessanta gradi con tutte le criticità che può portare comunque un’opera prima così complicata. Sento che devo ancora cominciare a fare sul serio.
Quali sono gli aspetti più appaganti ma anche quelli più complessi sia nel lavoro di regista che nel lavoro di produttore?
L’ambizione di questo progetto mi ha ripagato di ogni minuto speso. Alla prima presentazione abbiamo avuto una sala piena, c’erano circa duecento persone e non sapevamo più dove mettere la gente. E stiamo parlando di un cortometraggio, e avere il sold out in quarantotto ore a una presentazione penso che sia qualcosa di straordinario, perché vuol dire che le persone sono venute a vedere un progetto nel quale hanno creduto senza nemmeno conoscerci come casa di produzione, e questo ci ha fatto capire che ci stiamo muovendo nella direzione giusta. Stiamo mettendo su altri progetti che stanno ricevendo sui social tantissimi feedback positivi; le persone credono in noi e in quello che stiamo facendo. Quindi la sfida è quella di trovare il modo di convertire la visione in realtà.

Dove spera di arrivare con questo cortometraggio?
Abbiamo iniziato una distribuzione internazionale, abbiamo applicato il cortometraggio a 75 festival con Oscar Qualifying. La nostra visione è internazionale al cento per cento; quindi noi stiamo andando in quella direzione. L’obiettivo è quello di mettere sul mercato prodotti comunque di qualità che però sono del genere che le persone vogliono anche vedere. Stiamo spingendo tantissimo con tutte le risorse che abbiamo e stiamo riuscendo a portare a termine già degli obiettivi importanti. Mi rendo conto che il genere horror è quello più difficile da finanziare ma è anche quello che, potenzialmente, funzionerà sempre: ci sono infiniti amanti di cinema horror inoltre; quindi non è neanche così impensabile da produrre, e se ben pensato e realizzato può diventare una scelta vincente. Almeno cosi pensiamo noi. Il pubblico ha proprio bisogno di contenuti nuovi, di freschezza. Soprattutto la fascia 18/35 anni è stufa, vuole roba nuova che parli con un linguaggio che le appartenga. Noi stiamo andando ad incontrare proprio quel target.
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