La trama di La Meccanica delle Cose
Tito, il gatto di Alessandra Celesia, è caduto dall’ottavo piano di un palazzo ed è rimasto paralizzato.
La filmmaker, però, non si arrende all’idea che il suo piccolo amico non possa più usare le zampe posteriori, e perciò decide di farlo operare in Cina, dove pare ci siano alcuni scienziati in grado di rigenerare il midollo spinale.
Alessandra e Tito non sono soli: assieme a loro c’è un gruppo di persone giunte dalla Francia che sperano di riacquistare l’uso delle gambe.
Nel frattempo, la regista è alle prese con le conseguenze psicologiche di un incidente stradale che ha risvegliato in lei alcuni sensi di colpa.
L’analisi di La Meccanica delle Cose
Il concetto di ferita e cura ricorre spesso nel cinema di Alessandra Celesia, autrice dallo sguardo intimo e poetico, sovente focalizzato su esistenze difficili, passati dolorosi, percorsi di rinascita alimentati da sogni e speranze.
Ne è un esempio il precedente film della regista e attrice valdostana, Anatomia del Miracolo (2017), in cui il rapporto malattia/guarigione veniva messo in relazione con le istanze d’intercessione divina.
La Meccanica delle Cose (2023) – nel titolo internazionale, The Mechanics of Things – si inserisce all’interno di questo discorso spostando il termine di riferimento dal sovrannaturale alla scienza, e partendo, altresì, dal presupposto che, se quest’ultima è stata in grado di portare l’uomo sulla luna, non vi è ragione per cui non possa trovare una cura per farlo tornare a camminare.
Un racconto sospeso tra speranza, illusione e accettazione
Ci si muove, insomma, sul crinale della diade speranza/illusione e del vitale orizzonte di senso che essa dischiude.
Eppure, non sembra tanto essere questo il nucleo centrale de La Meccanica delle Cose, quanto piuttosto quello legato a un percorso di accettazione dei propri e degli altrui limiti. Un percorso che Celesia, abbandonato il punto di vista dell’osservatore esterno e calatasi direttamente nelle viscere del racconto, propone attraverso le sue vicende private. Le stesse che, prendendo le mosse dall’incidente di Tito e dal suo viaggio della speranza in terra d’Oriente, la conducono all’interno di un cammino introspettivo volto a sciogliere i nodi irrisolti della sua esistenza.
Sono i nodi legati alla propria infanzia e a un padre depresso che sente di non essere riuscita a curare/salvare. Da qui, i suoi rimorsi e l’assillo di dover “riparare” ogni ferita a tutti i costi, come in una sorta di cura traslata che, proiettandosi oltre il tempo e lo spazio, l’illuda di guarire il proprio genitore, “…l’unico che vorrei che si rialzasse”.
La Meccanica delle Cose e la parola-chiave “riparare”
“Riparare”, dunque, è la parola-chiave su cui poggia la struttura di La Meccanica delle Cose. Riparare non soltanto per “aggiustare” Tito e tutti coloro che a cui si vuol bene, ma anche per liberare se stessi dalle proprie ossessioni. Per curare le lacerazioni dell’anima attraverso percorsi interiori che aiutino a superare le proprie angosce.
Ed è questa la ragione per cui Celesia costruisce il proprio racconto mescolando le immagini del suo amato gatto, in attesa di un improbabile miracolo della scienza, con i filmati delle sue sedute psicanalitiche (nuovamente utilizzate – pur se attraverso terze persone – nel suo ultimo docufilm The Flats). Quelle nel corso delle quali sembra convogliare il proprio senso d’impotenza verso una nuova consapevolezza: che non ogni ferita – dello spirito o del corpo – si può curare, e che tutto sommato va bene così, perché, in fondo, “siamo tutti fracassati […], e però cerchiamo di starci dentro”.
Si tratta, in un certo modo, del suo intimo viaggio dell’eroe, dell’arco di trasformazione che la porta a una riconciliazione con se stessa, a uno sguardo focalizzato su quel che c’è, piuttosto che su quel che manca. In tal senso, è lo stesso Tito – simbolo inconsapevole di resilienza – a curarla con la propria naturalezza. Una postura che non tende a un impossibile rewind, ma a una concentrazione di energie per vivere al meglio l’oggi.
Tra reportage e flusso di coscienza
Montato con riprese dai vari formati che alternano il viaggio in Cina – dove vengono raccolte le testimonianze di pazienti e scienziati – e il percorso interiore della stessa Celesia, La Meccanica delle Cose finisce, in tal modo, per trascendere dall’iniziale format del reportage tout-court per attingere i contorni di un tormentoso, ipnotico flusso di coscienza dentro il quale scorrono – attraverso piani temporali frammentati – immagini a tratti sgranate, nervose e sfocate, chiara testimonianza del disagio emotivo dell’autrice.
Vecchi filmini del padre al timone di una barca nell’azzurro mare d’estate – metafora di un paradiso perduto, ma anche segno di un passato che non può tornare – si uniscono alle sequenze fiction che punteggiano e arricchiscono il racconto di interessanti elementi onirici.
Ne scaturisce un docufilm stratificato e ben amalgamato, in cui dolore e introspezione, speranza e accettazione s’incontrano per raccontarci come sia proprio nelle nostre fragilità che ritroviamo il senso più profondo della parola umanità.