Nei primi episodi i fratelli D’Innocenzo aboliscono la distanza tra cinema e televisione. Una miniserie che con la sua estetica autoriale è un ponte tra l’american television e il noir italiano
Dopo l’anteprima al 74ª edizione della Berlinale e un complicato passaggio al cinema, sbarca finalmente su Sky Atlantic dal 27 novembre Dostoevskij, la miniserie in 6 episodi scritta e diretta da Fabio e Damiano D’Innocenzo. Prodotta da Sky Studios e Paco Cinematografica, nel cast Filippo Timi, Carlotta Gamba, Gabriel Montesi e Leonardo Lidi.
IL TRAILER – Dostoevskij
Sinossi – Dostoevskij
In una non precisata provincia italiana, un ignoto serial killer si macchia dei più efferati omicidi lasciando sul luogo del delitto frasi sul senso della vita, rinominato per questo Dostoevskij. Indaga sul caso il capo delle operazioni Enzo (Filippo Timi), una figura precaria e alquanto instabile: assume psicofarmaci, ha istinti suicidi, adotta modi burberi e autolesionistici. Mentre comincia una rivalità con il vice Fabio (Gabriel Montesi) in procinto di prendere il suo posto, Enzo deve gestire il drammatico rapporto con la complicata figlia tossicodipendente Ambra (Carlotta Gamba).
Una serie per il cinema – Dostoevskij
Il cinema dei fratelli D’Innocenzo è sempre stato un cinema di frontiera. Inteso come confine tra territorio e situazione. A ben vedere la loro filmografia, da Favolacce in poi, ha sempre cercato di raccontare uno spaccato desolante, avvilente e senza prospettive per l’animo umano. Iniziando e finendo nel perimetro spaziale. Nei primi episodi di Dostoevskij questa tendenza emerge con ancora più rilevanza. I D’Innocenzo ci fanno immergere nella realtà del non spazio. Così autentico lo scenario della serie con i casali e le villette abbandonate della provincia italiana. Ma con quel senso di spazio indefinito, indecifrabile, prigioniero dell’indeterminatezza dell’atmosfera attraverso lo stile. Mentre in Dostoevskij nella prima scena il tentato suicidio del protagonista Enzo viene avvolto da una serie di immagini sui dettagli dell’ambiente interno, è fuori che i D’Innocenzo realizzano l’infinitezza spaziale.
I D’Innocenzo sono sublimi in un’opera che sfida la serialità americana
La ripresa a campo lungo mentre il poliziotto è sui luoghi del delitto e i primi piani inclinati coperti dal controluce alla Gordon Willis inquadrano il lavoro del duo registico che vive in primis di vitalità del mondo di Dostoevskij. Senza celare nulla, ma nascondendo tutto. L’operazione, che quest’estate ha visto la serie trasportata al cinema per un breve periodo, non ha avuto i frutti sperati per una serie di motivi che riguardano logiche distributive e vecchie politiche degli esercenti legati ancora ad una stantia strategia commerciale. Ma è questa operazione che sottolinea una delle caratteristiche della serie e anche la sua scommessa: vivere sul piano intermedio del linguaggio cinematografico e di quello televisivo. Infatti chi vedrà la serie si renderà conto come i D’Innocenzo cercano in tutti i modi di coniugare le due strutture. Far convivere il bianco col nero, il cane col gatto.
È questa la sfida di Dostoevskij, oltre lo psicodramma di Enzo e la caccia al serial killer. Spingersi verso il cinema d’autore, quello più arthouse possibile, sfruttando l’organismo seriale come scenario di un racconto filmico. La serie come film prolungato è l’ambizioso progetto dei D’Innocenzo e i primi due episodi protendono verso questa dinamica. Le parti più verticali della serie, il rapporto di Enzo padre pentito con la figlia Ambra e l’Enzo poliziotto nella rivalità col suo successore, non sono mai microstorie che una normale serie aprirebbe e richiuderebbe. Tutto viaggia in funzione della storia del personaggio di Timi; l’antefatto, le cadute e il declino di Enzo sono legati alla natura iper-autoriale della serie, che vive del suo montaggio frammentato usando varie forme, dal découpage al connotativo. Una tessitura che tra cinema e televisione trova le sue fondamenta nello scopo/illusione del protagonista. Afferrare e liberarsi della vita.
Il rapporto epistolare
Sia nel primo che nel secondo episodio Dostoevskij vive di rapporti. Il più evidente è quello epistolare attraverso l’espediente metaletterario. Enzo e la polizia si trovano difronte ad una messagistica che l’ignoto serial killer lascia sulle sue vittime. Frasi esistenziali che riflettono l’umanità del mondo, intrise di rivalità verso le istituzioni e che evidenziano il ruolo che l’essere umano ha su questa terra: un automa che compie azioni, le riproduce senza alcuno scopo e a cui il serial killer vuole dare un senso attraverso la morte. Il rapporto epistolare che Enzo cerca di interpretare tappezzando la sua stanza di lettere dell’omicida, inquadra un altro rapporto. Quello di Enzo con la figlia Ambra. Se nel primo episodio flash isolati e burrascosi dialoghi telefonici riportavano un rapporto al limite tra padre e figlia, è nel secondo episodio che il viaggio nell’animo umano si fa più corposo.
L’animo umano di un padre e una figlia
E ciò è merito soprattutto di una eccellente Carlotta Gamba nel ruolo di Ambra la figlia del protagonista. Dopo che Enzo è riuscito a recuperarla da un casale dove la ragazza era andata per rifornirsi di varie droghe, i due cercano di ricucire il proprio rapporto in un episodio autonomo che si prende il tempo che serve ad un padre e una figlia. C’è un continuo scambio di ruoli in Dostoevskij. Timi passa da antieroe ad eroe appena esce dal pubblico per entrare nel privato. Attinge al grottesco nero con i suoi superiori e il suo vice Fabio. Premuroso e preoccupato invece nel non riuscire a rinsaldare il legame con la figlia che sembra persa in se stessa. Nel secondo episodio viene fuori tutta la fanciullezza e l’innocenza perduta ma desiderata dal personaggio della Gamba. È una Christiane F. in cerca di redenzione dalla sua autodistruzione. Gioca al parco giochi con le palle colorate, si immerge nella colazione portata dal padre mentre Enzo la guarda con uno sguardo perso. Pentito, simbolo delle occasioni perdute da un padre nei confronti di una figlia. Sua figlia.
Ma Dostoevskij oltre a viaggiare costantemente tra la forma del cinema e della televisione, è anche un potente ibrido tra noir italiano e complex tv americana. Se l’atmosfera periferica è densa de L’odore della notte di un maestro del genere come Caligari, la struttura seriale e il tratto psicologico affondano nella quality tv made in Usa. True Detective e Breaking Bad in primis come punti di riferimento. Enzo come un antieroe americano è soffocato dalle proprie inquietudini esistenziali, forgiando un proprio carattere in tendenza con i primi episodi della serie. Un personaggio che tenta di annientarsi per sopravvivere a se stesso e all’atrocità del suo interno e del suo esterno.
Dostoevskij di Damiano e Fabio D’Innocenzo, nei suoi primi episodi, è un grande lavoro autoriale che annienta le distanze tra grande e piccolo schermo, una serie con una precisa visione e impronta estetica.
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