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‘Les Fantômes’: intervista al regista Jonathan Millet

Jonathan Millet ci ha raccontato come ha costruito il film Les Fantômes, una storia vera in uscita al cinema nel 2025.

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Les Fantômes è il primo lungometraggio di finzione del regista e documentarista Jonathan Millet.

Dopo essere stato presentato all’ultimo festival di Cannes nella sezione Settimana della critica è in concorso alla XXX edizione del Medfilm Festival a Roma. Il film uscirà in sala nei primi mesi del 2025, con Maestro Distribution.

Hamid, interpretato da Adam Bessa, fa parte della cellula Yaqaza, un’organizzazione segreta che dà la caccia ai leader latitanti del regime siriano. Sta seguendo le tracce del suo ex carnefice, di cui non ha mai visto il volto. Spinto da un’intuizione è finito in Francia, dove la sua ricerca è diventata un’ossessione.

Per realizzare questo film basato su fatti realmente accaduti, il regista ha fatto una lunga ricerca, raccogliendo le testimonianze di moltissimi esuli siriani. L’abbiamo intervistato per sapere di più su come ha costruito questa storia intensa, sensoriale e profondamente drammatica.

L’intervista esclusiva di Taxi Drivers

Innanzitutto complimenti. Qual è stata per lei la più grande sfida di questo progetto? 

Allora, ci sono state varie sfide per me per questo film, perché prima di tutto facevo soprattutto documentari e questo è il mio primo lungometraggio. Poi volevo appunto girare in tre diversi paesi, quindi c’erano tantissime lingue e attori che venivano da ben 16 paesi diversi.

Però la sfida più grande è stata che assicurarmi che le persone che guardavamo il film riuscissero a fare un collegamento emotivo con il personaggio. E questo è stato un po’ difficile perché lui fondamentalmente è una spia, nella scena non deve esprimere le sue emozioni. Quindi ho dovuto trovare delle strategie cinematografiche dalla prima ripresa fino all’ultima per cercare di fare questo collegamento.

I traumi di Les Fantômes

Infatti nel film c’è, secondo me, un grande lavoro sul trauma, sui trigger e su tutta una dimensione più sensoriale. Quali sono state queste strategie cinematografiche? È stato difficile mettere in scena le testimonianze raccolte?

Sì, il mio primo focus per fare questo film è stato sul trauma. Stavo lavorando su un documentario che aveva come topic il trauma e volevo fare un film su questa cosa invisibile che tutti gli esuli, ma in realtà tutti gli esseri umani, hanno all’interno del corpo. Su come il corpo mantiene la memoria del dolore. Questa è stata la prima idea che ho avuto riguardo al film.

E poi, quando ho iniziato a lavorare su questo film di finzione, ho incontrato molte persone, ho lavorato duramente per trovare tutti gli elementi per raccontare queste storie. E penso che la realtà sia stato il mio migliore coautore.

Quando ho incontrato tutti questi esuli siriani che sono rimasti due, tre, quattro anni nella prigione di Bashar Al-Assad, mi hanno detto che avveniva tutto nell’oscurità più totale, che avevano solo il suono e i sapori per sapere dove erano per orientarsi.

Quindi, quando poi per la prima volta ho sentito proprio di queste cellule segrete che operano in questo modo ho deciso che volevo proprio fare questo film su questo argomento, però uno degli elementi fondamentali era che queste persone non hanno mai visto in faccia i loro torturatori. Quindi, l’unico modo che avevano per poter identificarli, poi, era affidarsi ai propri sensi, avere fiducia nei propri sensi. Ed è per quello che era importante sentire la voce, l’odore della persona stessa, il rumore dei passi che facevano.

Quindi, per me, questo elemento era già straordinario di per sé ed era già cinema.

Dipende da questo la scelta di non ritrarre visivamente le torture del regime? C’è una dimensione sensoriale evidente e grafica, però non è mai visiva. 

Sì. Questo è il primo motivo, perché queste sono tutte storie vere raccontate da esiliati veri e quindi il modo in cui loro le raccontavano era così potente da non essere necessarie le immagini. E volevo condividere anche questo.

La seconda ragione è che il cinema che a me piace, il tipo di cinema che io voglio fare, è quello in cui si lascia sempre un piccolo spazio allo spettatore per crearsi la propria narrazione, in cui gli si chiede di crearsi una propria immagine mentale. Tutti nella nostra vita abbiamo visto immagini di violenza o di tortura, però credo che per ognuno sia sempre più potente quella propria immagine interna che ci si va a creare, perché si forma così un dialogo tra lo spettatore e il film ed è proprio quello che io cerco di fare.

Nel film non si rappresenta solo un trauma individuale ma collettivo che si vede bene anche nel dolore e nella diffidenza dei personaggi siriani nell’interagire tra di loro, per paura del regime ma non solo. Com’è stato rappresentare questa collettività?

Quando ho fatto la ricerca per il film avevo veramente accumulato tantissime informazioni, ma io proprio non volevo fare un film che fosse teorico. Il mio scopo era proprio quello di permettere allo spettatore di entrare nella mente di un personaggio, di identificarsi con lui, provare i suoi sentimenti, la sua paura e il suo dolore.

Il mio scopo era fare un film che fosse molto corporeo, che si sentisse nel corpo e volevo che le persone fossero in grado di sentire profondamente con il personaggio quello che gli succedeva.

Allo stesso tempo, ho voluto che il titolo fosse plurale: in francese Les Fantômes. Proprio perché volevo che si capisse che sì, stiamo raccontando la storia di un individuo ma in realtà è la storia di molti altri. Molti altri che non sono solo siriani, perché stiamo parlando di un tema più grande, quello dell’esilio in generale.

Infatti in questa storia incontriamo tanti esiliati, tanti rifugiati diversi e io volevo che si desse l’idea che ognuno di loro è una persona con una storia diversa, e non si può parlare per loro in generale.

Nel film sembra ci sia quasi in certi momenti un gioco di identificazione fra Hamid e Hassan. Dato in parte dal pedinamento, ma anche quando dialogano sembra quasi ci sia una simpatia, un’apertura di Hassan nei confronti di Hamid: cosa rappresentano le loro scene a faccia a faccia?

Per me sono due parti dello stesso specchio, ed è quello che mi piace nel film, perché come nella vita non è sempre nero o bianco. Quindi voglio avere due personaggi complessi, che sono ognuno dalla propria parte, ma molto più complessi che solo il ragazzo cattivo e il ragazzo buono.

Sì, hanno più o meno la stessa età e in un modo sono due risultati di scelte diverse. Vengono dallo stesso paese, e c’è una guerra e una linea che separa una parte e l’altra. E i personaggi possono dimostrare come un paese può essere diviso.

Quindi quando si incontrano in questo ristorante sono davvero due parti opposte ma hanno qualcosa in comune, che è la solitudine dell’esile e in qualche modo sentono che hanno bisogno l’uno dell’altro e che hanno questa piccola cosa in comune. E quindi danno qualcosa di speciale a questa lunga scena.

Per uno spettatore, la vendetta nei confronti di Harfaz potrebbe sembrare quasi legittima, dopo le torture subite. Nonostante ciò, Hamid fa una scelta diversa. È anche questo basato su fatti reali? Qual è la motivazione dietro questa moralità rigorosa? 

Quando ho scritto la mia sceneggiatura la storia vera non aveva ancora una conclusione. Quindi io ho dovuto fare la mia scelta per il film, ma ho scoperto dopo che è stata la stessa scelta fatta nella realtà.

Il mio obiettivo era di fare un film sul dubbio. Noi vediamo i dubbi del nostro personaggio, siamo con lui e ci stiamo facendo le stesse grandi domande. Una porta sempre ad un’altra e ad un’altra.

Il mio film è davvero tutto sulle domande. E da lì so che lo spettatore si chiederà: “Cosa avrei fatto io se fossi stato allo stesso posto?”. Ed era quello che volevo. Per me è stato interessante sondare tutte le possibilità e alla fine Hamid ha scelto qualcosa di più grande e importante per tutta la popolazione, per tutta la Siria, per tutti gli esiliati, molto più che per la sua personale vendetta.

Quando ad Hamid inizialmente è stato proposto il ruolo da insegnante, asserisce di non poter insegnare e trasmettere la forma poetica mentre è immerso nel suo dolore. Alla fine effettivamente vediamo che si avvia verso quel ruolo. È una metafora per l’andare avanti? E qual è l’importanza della letteratura, anche in tempi così tragici?

Sì, ci sono così tante cose da dire su questo argomento e cercherò di essere conciso. Per me è molto più di una metafora, è la linea principale, fondamentale, del film. È la storia di qualcuno che ha perso tutto e, attraverso la sua missione, si chiede se alla fine sia possibile tornare alla vita.

Il titolo francese, Les Fantômes, rappresenta davvero il momento in cui hai perso ciò che ti rendeva un essere umano: la tua identità.

Quindi, per me, in questa missione, in questo thriller, c’è davvero la storia di qualcuno con il suo trauma, con la sua perdita, e di come cercherà di tornare alla vita o meno. E così, a metà, non è ancora pronto, ma alla fine vuole provare. Quindi non è un enorme lieto fine – non vogliamo rovinare la sorpresa agli spettatori-. È semplicemente il fatto che vuole provare ad andare in quella direzione.

E poi, la prima cosa che mi colpisce di questa storia è il fatto che i personaggi della cellula non sono spie, non sono poliziotti, non lo erano nel loro passato. Sono cittadini comuni, ed era così importante che uno di loro potesse essere un insegnante e l’altro un tassista, che è il punto principale di questa storia straordinaria.

Rispetto alla letteratura, durante la mia ricerca ho incontrato un insegnante di poesia ad Aleppo. Siamo diventati molto amici, e la sua storia è così forte che volevo mantenerne una parte nel film.

Poi, parlando in generale di come gli arabi sono visti in Europa, abbiamo molti cliché su come vediamo il mondo arabo. Per me, quindi, era anche importante inserire nel film indicazioni e riferimenti a questa grande cultura letteraria e poetica, di ogni genere, che ovviamente va avanti da secoli. E, in qualche modo, volevo inserirlo nel film.

Qual è la sua speranza per il film in sala e il messaggio che vorrebbe trasmettere?

Penso che quando realizzi un film su un argomento così contemporaneo e così importante, la cosa principale è il tuo punto di vista o la distanza che puoi creare con il pubblico. Non volevo assolutamente fare un film pieno di fatti, numeri, percentuali e informazioni, ma fare in modo che ognuno potesse sentire che Hamid potrebbe essere un eroe del cinema. Che sia possibile identificarsi, condividere emozioni, essere con lui e, quindi, durante un’ora e 46 minuti, condividere il suo destino. Forse alla fine del film Hamid può aiutare tutti ad aprire un po’ lo sguardo che possiamo avere sulla vita.

Quella che per me è la grande luce di questo film, è che quando nel mondo qualcosa non va bene, 10 o 12 persone che non hanno niente a che fare con le grandi istituzioni possano cambiare le regole del mondo.  È una cosa enorme. Questa è una storia successa circa 5 anni fa, e può dare molta speranza, penso, a chiunque si trovi in situazioni diverse, per poter cambiare quelle regole sbagliate.

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Les Fantômes

  • Anno: 2024
  • Durata: 106'
  • Distribuzione: Maestro Distribution
  • Genere: Thriller, spy film
  • Nazionalita: Francia, Germania, Belgio
  • Regia: Jonathan Millet