Les Fantômes (Ghost Trail), primo lungometraggio di finzione diretto da Jonathan Millet, è in concorso alla trentesima edizione del MedFilm Festival di Roma.
In linea con gli obiettivi del festival, con particolare attenzione alla tutela dei diritti umani e alla diffusione di un dialogo interculturale, il regista ha dichiarato la scelta di trasporre dei fatti realmente accaduti non nella forma del documentario, già adottata per i suoi precedenti lavori, ma sfruttando le risorse del cinema di finzione. Espediente che, sostiene, possa essere più efficace al fine di permettere agli spettatori di immedesimarsi nei personaggi, e comprenderne i sentimenti e i traumi.
Hamid, un viaggio tra il cinema di genere e il documentario
Hamid (Adam Bessa) è un rifugiato siriano sopravvissuto alle torture nella prigione di Saydnaya. Membro di un’organizzazione segreta che dà la caccia ai criminali di guerra siriani, vive a Strasburgo sulle tracce del suo ex carnefice, di cui non conosce il volto. I pochi indizi che ha a disposizione lo conducono all’Università di Strasburgo, dove ha inizio il pedinamento di uno studente di chimica che si fa chiamare Sami Hanna.
A metà strada tra il film di spionaggio e il thriller psicologico, Les Fantômes assume una dimensione sensoriale, in quanto Hamid sostiene di poter riconoscere il suo ex carnefice dal suono dei suoi passi e della sua voce, nonché dal suo odore. Questo aspetto quasi corporeo del film, fortemente cercato dal regista, è supportato da una colonna sonora disadorna, che amplifica il suono di passi e respiri accompagnati da primi piani sul corpo del protagonista.
E certi espedienti risultano particolarmente efficaci nel mettere in evidenza dettagli come il respiro accelerato di Hamid nei momenti di tensione, durante l’ascolto delle registrazioni-testimonianza delle vittime come lui. Ma è soprattutto la distanza ridotta dal presunto carnefice – distanza che nella prigione di Saydnaya poteva significare solo la certezza della violenza che sarebbe arrivata subito dopo – il nucleo di tensione e inquietudine che spinge il dolore di Hamid al limite dell’ossessione.
Dinamicità del dolore
Gli incontri tra Hamid e Sami Hanna avvengono sempre in spazi aperti e in presenza di una folla di persone, il che accentua la discrepanza tra il sentire claustrofobico di Hamid e la dispersività della sua identità, conseguenza della solitudine e dell’isolamento dovute tanto a un esilio fisico quanto psichico.
L’uso frequente della camera a mano restituisce dinamicità alla rappresentazione del dolore che tanto spesso nell’ambito della narrazione cinematografica “immobilizza” i personaggi: Millet è stato capace di rendere efficacemente la tridimensionalità di un trauma caratteristico e difficile da comprendere da chi non ha vissuto il conflitto della guerra in prima persona.
Il risultato è un’esperienza immersiva e toccante – capace tuttavia di sottolineare il distacco emotivo del protagonista grazie al supporto di una fotografia fredda e cupa – che pur avvalendosi delle tecniche del cinema di genere mantiene viva l’autenticità tipica del documentario.
È infine il problema dell’identità a determinare l’esito della ricerca del protagonista. Il dilemma morale della scelta prende lentamente il posto della tensione e dell’ossessione: consacrare e sacrificare la propria esistenza in nome della vendetta e della giustizia, o rinunciare ai ricordi di un passato racchiuso nella cornice nitida dell’identità, e macchiato irreversibilmente dalle ferite e dalle torture, per poter finalmente ricondurre la vita verso i binari della ricerca di un senso?
Jonathan Millet è nato a Parigi nel 1985. Dapprima studente di filosofia, ha documentato e filmato oltre cinquanta paesi e rappresentato realtà difficilmente accessibili tra cui il Medio Oriente e tutta l’America del Sud. Ha diretto numerosi cortometraggi (ricordiamo Et toujours nous marcherons) e documentari (tra cui Ceuta, douce prison). Les Fantômes ha vinto il premio per il miglior film al settimo El Gouna Film Festival.