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‘Stop Making Sense’: ovvero come un film concerto è diventato iconico

Restaurato in 4K, una pietra miliare dei film concerto, che dopo quarant'anni riesce ancora a sbalordire musicalmente e visivamente

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Stop Making Sense (1984) di Jonathan Demme, con i Talking Heads è una pietra miliare dei film concerto. La “severa” Pauline Kael lo aveva addirittura definito “close to perfection”, ovvero vicino alla perfezione. E il suo giudizio non era del tutto esagerato.  Può sembrare semplice filmare un concerto, invece è molto complesso. Lo ha dimostrato Martin Scorsese con L’ultimo valzer (The Last Waltz, 1978) e Shine a Light (2008), nel quale spiega come si è rapportato con il difficoltoso posizionamento delle macchine da presa.

Per i Talking Heads era l’affermazione definitiva in ambito visuale, dopo una sempre attenta cura dei videoclip promozionali. Mentre per Jonathan Demme un ritorno a un progetto Low Budget dopo il concomitante Swing Shift – Tempo di swing (Swing Shift, 1984), il dramedy sentimentale di produzione hollywoodiana che ebbe poca fortuna ai botteghini.

In contemporanea, il gruppo ha fatto uscire l’omonimo disco. Non la colonna sonora, ma una personale interpretazione di quel live, con la scaletta delle canzoni diversa da quella del film.

Per commemorare il quarantennale, Stop Making Sense è stato restaurato in 4K, e proiettato nelle sale soltanto per tre giorni.

Stop Making Sense: compendio di una carriera decennale

I Talking Heads, inizialmente formati da Chris Frantz (batteria), Tina Weymouth (basso) e David Byrne (voce e chitarra), hanno cominciato a suonare intorno al 1974. Una lunga gavetta partita nell’iconico locale CBGB, dove possiamo vederli mentre si esibiscono, nel documentario underground The Blank Generation (1976) di Amos Poe e Ivan Kral, che immortalava la nascente quanto già incisiva scena punk. Dopo il primo singolo, Love Goes to Building Fire (1977), e un tour di rodaggio come supporter dei Ramones, producono nel medesimo anno Talking Heads: 77, nel quale si aggiunge il quarto componente: Jerry Harrison (chitarra e tastiere).

Sebbene provenienti dalla scena punk, i Talking Heads non hanno mai solcato quel genere. Hanno sempre avuto un sound peculiare: inizialmente underground, e poi aperto – con sperimentazioni intelligenti – al pop.

I quattro componenti hanno tutti una formazione accademica nell’ambito dell’arte, ed è per questo che non soltanto hanno creato un sound e un ritmo artistico, ma hanno lavorato attentamente anche sull’immagine. Titoli concettuali, copertine originali e a volte mitiche, e un attento lavoro sui videoclip. Specialmente con l’avvento di MTV, che ha portato massicciamente in Tv la musica. I videoclip dei Talking Heads, molti dei quali realizzati dal medesimo David Byrne, sono a volte vere opere di videoarte. Ad esempio, è divenuto celebre il balletto di Byrne nel video Once a Lifetime (1980).

Dopo il doppio album live The Name of this Band Is Talking Heads (1982), che racchiudeva due periodi distinti della band e che serviva anche per arginare la crescente ondata di bootleg, il gruppo decise di fare un passo ulteriore. Imporsi artisticamente e autorialmente anche nei film concerto.

Stop Making Sense: oltre lo sterile concetto di film concerto

Finanziato dagli stessi Talking Heads, che hanno sborsato circa 1 milione e 200 mila dollari, questo film concerto non voleva essere soltanto un compendio del loro decennale lavoro musicale. Doveva rientrare nel concetto di opera d’arte, proseguendo quel percorso iniziato con le copertine degli album e poi con i videoclip.

Dovendo essere un documentario innovativo, che si smarcasse da obsoleti schemi, è stato assoldato Jonathan Demme, che aveva proficuamente fatto la gavetta nella factory di Roger Corman. Regista eclettico, passato dai B-Movies al cinema hitchcockiano e alla sferzante commedia, Demme aveva il giusto piglio artistico, iconoclasta e ugualmente oggettivo.

Il primo problema che si presenta quando si decide di immortale un concerto è il posizionamento delle macchine da presa. Ognuna deve essere collocata in maniera che riprenda da una determinata angolazione l’esibizione, e rapidamente possa centrare l’assolo del singolo artista. E, ugualmente, fare in modo che non entri nel campo visivo dell’altra cinepresa.

E questo dislocamento di MDP dipende anche dalla scenografia adottata. Successivamente, subentra il montaggio, che dovrà dare un ritmo visivo al girato. E che riesca a sintetizzare, nel caso di uno sfrondamento di una lunga scaletta, il concerto.

Stop Making Sense è stato girato durante quattro concerti che si sono tenuti nel dicembre del 1983 presso il Pantages Theatre. I Talking Heads stavano facendo il tour promozionale di Speaking in Tongue (1983).

Rispetto a L’ultimo valzer, girato nel classico e barocco Winterland Ballroom, con il palcoscenico affollato da strumentazioni e musicisti, la scenografia di Stop Making Sense è sobria. Un palco vuoto che di canzone in canzone si riempie e si completa con i musicisti e gli strumenti, ma restando sempre minimale. E questo incremento scenografico è mostrato, con tanto di operai che entrano per portare pedane e strumenti, che sono però soltanto quelli suonati dai musicisti.

Su questa spoglia scenografia gioca la regia di Jonathan Demme, implementata da un’illuminazione ugualmente minima (si giunge all’utilizzo di una abat-jour a piantana durante l’esecuzione di This Must Be the Place, a sottolineare l’intimità della canzone).

Unici due punti in comune con L’ultimo valzer sono quelli di evitare il più possibile d’inquadrare le reazioni del pubblico (controcampo che influenzerebbe lo spettatore non presente, e atto che potrebbe evidenziare l’auto-celebrazione del gruppo) e quello di cercare di non concentrarsi sempre sugli assoli di ogni singolo musicista. I Talking Heads sono un gruppo, quindi bisogna cercare di riprenderli in azione mentre sono tutti assieme.

A queste scelte tecniche si aggiungono le simpatiche citazioni cinefile. Il font del titolo, sulla locandina e sui titoli di testa, ad opera del desinger Pablo Ferro, omaggiano quelli de Il Dottor Stranamore – Ovvero: come ho imparato a non preoccuparmi e ad amare la bomba (Dr. Strangelove or: How I Learned to Stop Worrying and Love the Bomb, 1964) di Stanley Kubrick. Citazione che si riscontra anche nel ritmato trailer.

Kubrick è citato anche nell’entrata in scena di David Byrne. La macchina da presa inquadra il brullo suolo del palco, mentre scorrono i titoli di testa. Il Front man viene introdotto partendo dalla sua ombra, che entra nell’inquadratura e inonda il bianco palco. Un taglio d’inquadratura che ricorda la scena di Arancia meccanica (A Clockwork Orange, 1971) quando i quattro drughi entrano nel sottopassaggio dove si corica usualmente un barbone. Per poi inserire un’altra divertente citazione cinefila. Verso la fine dell’esecuzione di Psycho Killer, prima canzone della scaletta eseguita dal solo Byrne, il cantante rifà la plateale, cinematografica e burlesca morte di Michel Poiccard (Jean-Paul Belmondo) in Fino all’ultimo respiro (À Bout the souffle, 1959) di Jean-Luc Godard.

Stop Making Sense: To play…all

Il titolo è desunto da un verso della canzone Girlfriend Is Better. Tradotto letteralmente significa: Smetti di avere senso. Una frase che concentra bene il significato del documentario e anche del percorso artistico dei Talking Heads, che hanno un repertorio elastico, non fisso su un determinato stile musicale.

Come scritto nel paragrafo precedente, Demme “gioca” con la minimale scenografia, attraverso movimenti di macchina, montaggio e luci. I Talking Heads stanno suonando, ma la loro performance è anche un gioco. Come dimostra l’allegria dei volti e la foga in cui eseguono i brani. Oppure le giocose interpretazioni di David Byrne che come un novello Fred Astaire quasi balla con l’abat-jour a piantana. Oppure corre intorno al palco durante l’esecuzione di Crosseyed and Painless. Gioco che si ravvisa anche durante l’esecuzione di Genius of Love, canzone del gruppo Tom Tom Club fondato da Chris Frantz e Tina Weymouth. La bassista, insieme alle coriste, Edna Holt e Lynn Mabry, ballano quasi come adolescenti, e si divertono.

Suonare, giocare, ma anche recitare. Stop Making Sense è un film, e sebbene i membri del gruppo siano loro stessi, stanno comunque recitando. E tra tutti c’è il primo attore, che è David Byrne. Sin dalla prima canzone non esegue semplicemente i brani, ma giocosamente li interpreta. Non a cosa tra i quattro componenti è quello più teatrale.

Protagonista nei videoclip del gruppo (e poi della sua carriera solista), Byrne attua diverse mimiche per ogni canzone. Come nella già citata esecuzione di Psycho Killer. O in Once in a Lifetime (gli occhiali da vista che rimandano a quelli del videoclip). Oppure nello snodato ballo in Life During Wartime. E soprattutto recita in Girlfriend Is Better, nel quale indossa una corpulenta giacca classica. Un blazer bianco, che rappresenta metaforicamente il capitalista americano, divenuto iconico. Tanto che in un episodio de I Simpson Kent Brockman fa un balletto alla Once in a Lifetime indossando il mitico grosso blazer.

Film concerto: operazione di marketing, ma non sempre come attesta l’opera di Jonathan Demme

Negli anni Ottanta i programmi televisivi, americani e britannici, proponevano spesso riprese di concerti. The Police, U2, Paul McCartney, Joe Jackson,  Talk Talk, Talking Heads e via di seguito. O, meglio ancora, il longevo Rockpalast, programma tedesco sul canale WDR, che ospita artisti internazionali per le esibizioni live. Sono tutti video concerti funzionali per conoscere e apprezzare l’arte e la musica degli artisti, però sono soltanto opere m mediocri che documentano l’esibizione. In poche parole sono “usa e getta”.

I film concerto però hanno cominciato a esistere a partire dagli anni Sessanta, con la definitiva esplosione del Rock ‘N’ Roll, perfetto genere d’azione che può rendere bene anche sullo schermo. Mentre i Beatles puntavano maggiormente su opere narrative (e d’animazione), i Rolling Stones hanno virato sul formato “film concerto”. Per auto-celebrarsi, ma anche per espandere il loro charme scenico. Gimme Shelter (1970) di Albert e David Maysles è divenuto famoso non tanto per le qualità cinematografiche, quanto per essere un reperto filmico (con tanto di analisi in moviola) sull’uccisione di un fan da parte di uno degli Hell’s Angels. Famigerata banda di motociclisti in quell’occasione assoldata come addetta alla vigilanza.

Mettendo da parte il “kolossal” Woodstock – Tre giorni di pace, amore e musica (Woodstock, 1970) di Michael Wadleigh, manifesto su un’irripetibile stagione, non soltanto musicale, e mettendo in disparte anche Live at Pompeii (1972) di Adrian Maben, docu-concert lisergico che rispecchia le sperimentazioni sensoriali dei primi Pink Floyd, gli altri film concerto non hanno un particolare rilievo. Perfino Let It Be – Un giorno con i Beatles (Let It Be, 1970) di Michael Lindsay-Hogg è divenuto storico soltanto perché eterna l’ultimo concerto dei Beatles, originalmente eseguito sui tetti della Apple. E che sarà poi omaggiato, con stilemi anni ’80, dagli U2 con il videoclip Where the Streets Have no Name (1987) diretto da Meiert Avis. E, per inciso, Michael Lindsay-Hogg sarà il regista de The Concert in Central Park (1982), reunion del mitico duo Simon & Garfunkel.

Per trasformare il semplice filmare in qualcosa di veramente cinematografico, bisognerà attendere L’ultimo Walzer (The Last Waltz, 1978) di Martin Scorsese, che immortala il commiato del gruppo The Band. Scorsese, era stato uno dei montatori di Woodstock, e supervisore al montaggio di Elvis in tournée (Elvis on Tour, 1972) di Pierre Adige e Roberto Abele. Questo apprendistato sarà fondamentale per la costruzione de L’ultimo valzer, che non è soltanto uno sterile film concerto, ma un’analisi anche dei singoli componenti e di tutta la scena musicale di quegli anni. Oltre a una qualità di ripresa superiore a tutti gli altri documentari. E fino a quel momento questo film concerto di Scorsese è stato un unicum, finché non è giunto Stop Making Sense.

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Stop Making Sense

  • Anno: 1984
  • Durata: 88 minuti
  • Genere: Documentario
  • Nazionalita: Stati Uniti
  • Regia: Jonathan Demme