All’interno del concorso italiano del Festival dei popoli 2024, in anteprima mondiale, c’è anche Pensando ad Anna di Tomaso Aramini. Il documentario racconta le rivolte carcerarie italiane degli anni ’70 attraverso la testimonianza di Pasquale Abatangelo, ex delinquente politicizzato e cofondatore dei NAP, organizzazione armata di sinistra attiva nei diritti dei detenuti. Il film intreccia interviste, ricostruzioni performative e materiale d’archivio, coinvolgendo Abatangelo (di origini fiorentine, che fu imprigionato proprio alle Murate), il regista Tomaso Aramini, il giornalista Fulvio Bufi e attori in un esperimento live che si interroga sulla necessità della violenza politica per il cambiamento sociale.
Il film sarà distribuito da No.Mad Entertainment.
Proprio a Tomaso Aramini abbiamo fatto alcune domande nell’ambito del Festival dei Popoli, per cercare di capire le scelte stilistiche del film, andando oltre il tema.
L’esperimento di Tomaso Aramini
Come hai avuto l’idea di girare questo documentario proprio in questo modo, cioè come un esperimento? Ho letto che è una scelta dettata anche dal fatto che forse era più semplice per tutti, per Abatangelo in primis, raccontarsi, mescolando i suoi racconti con la messa in scena.
La messa in scena è conseguenziale, come hai capito tu, all’impegno sociologico del film. Durante il lavoro di ricerca, che è iniziato nel 2019, ho capito, sviluppando il dialogo con Pasquale Abatangelo, che un’intervista one to one non avrebbe portato novità, originalità e riflessività al mio interlocutore.
Per cui, memore anche delle metodologie che ho potuto apprendere durante il mio dottorato di ricerca in Inghilterra, grazie a Lara Anderson, che è stata la mia director of studies, e che è una decana del cinema anglosassone che mi ha introdotto all’etnografia interpretativa e all’auto-etnografia, ho trovato questi strumenti assolutamente adeguati e necessari per far maturare una riflessività di Abatangelo all’interno del film.
Una volta individuato questo approccio, l’ho sottoposto all’attenzione di Abatangelo, che ha accettato. Da qui è nato un lunghissimo dialogo di scrittura e riscrittura di questo esperimento, in modo orizzontale, con Pasquale stesso, che è stato un patto di fiducia che poi ci ha permesso di essere più liberi, più autonomi sul set, di poter essere forse anche più veri, perché, a quel punto, con una fiducia maturata in molti anni e una scrittura molto ferrea, abbiamo potuto disattendere quella stessa scrittura e giocare.
Una tecnica nuova
Al di là del tema, Pensando ad Anna è anche divertente per il modo in cui è costruito. Oltre a essere un esperimento, è anche un po’ una mescolanza di generi, di tecniche, di stili. Ci sono varie sensazioni che si susseguono fin dall’inizio, sembra un’immersione in una sorta di videogioco.
Io ho fatto un film che si ispira al modernismo e il modernismo è sempre un’esperienza costruttivistica. Pertanto è chiaro che ho trovato nella cassetta degli attrezzi del modernismo una fonte di ispirazione per poter tradurre quella che è l’etnografia performativa, un ambito non maggioritario, ma comunque importante delle scienze sociologiche, ma che è confinato strettamente in ambito accademico. Tutto quello che è ripreso nell’etnografia performativa, che utilizza varie tecniche, tra cui anche il teatro, è sempre un elemento co-testuale a quello che poi è il saggio. Qui, invece, c’era un altro referente, lo spettatore cinematografico, per cui il mio lavoro da regista non era quello semplicemente di documentare a telecamera fissa ciò che avveniva durante l’esperimento, ma è stato farlo vivere allo spettatore.
Perché qui c’è una doppia dialettica: quella di Pasquale con il proprio vissuto e con il proprio passato, ma anche il tentativo di sviluppare una dialettica con lo spettatore attraverso una soggettività critica. Lo spettatore è all’interno di questa cosa e magari una volta è più d’accordo con Pasquale, una volta meno, ma, in qualche modo, interagisci e questo secondo me era assolutamente necessario.
Mi è sembrata una buona idea utilizzare questa tecnica nel cinema perché molto coinvolgente.
Speriamo. C’è comunque un filone, in un qualche modo minoritario, del documentario che in parte ha sfiorato l’etnografia performativa: The Act of Killing di Joshua Oppenheimer e, più recentemente, Quattro Figlie, il documentario che è stato premiato a Cannes. Io, con Pensando ad Anna, do un contributo ancora più esplicito, ancora più diretto, a questa ibridazione, ponendo l’accento su una questione che secondo me è molto importante oggi: cos’è il reale?
Mescolanza di realtà e finzione
A colpire c’è anche il fatto che ci sei tu in prima persona come una sorta di guida. A tratti tu e Fulvio Bufi, il giornalista, sembrate quasi Dante e Virgilio alla continua scoperta di qualcosa che anche noi spettatori scopriamo insieme a voi. E mi è piaciuto anche il modo in cui mescoli i documenti d’archivio (da foto a brevi filmati) alla modernità, perché a tratti si ha la sensazione che passato e presente si mescolino utilizzando anche l’Intelligenza Artificiale. Poi è anche sintesi perfetta della realtà, nel senso che lui è il protagonista dei fatti avvenuti negli anni ‘70/’80 che però prende parte al tuo film del 2024.
Prima di rispondere alla tua domanda devo aprire una parentesi in merito a quello che hai detto perché grande merito di aver tradotto questa struttura, questa pratica, quest’idea, è stata del direttore della fotografia Peter Zeitlinger (uno dei più grandi direttori della fotografia contemporanea, grande collaboratore di Werner Herzog e Ulrich Seidl, tra gli altri) con il quale ho avuto il privilegio di poter lavorare assieme e di poter creare veramente questo concept visivo. È chiaro che, venendo lui dall’est Europa, è molto famigliare con un cinema di piani sequenza, con un cinema strutturalista, dove l’estetica non è contenuto così formale, ma è una veste fatta a misura rispetto a quello che è lo scopo di ricerca del documentario.
Ha capito subito quello che volevo fare ed è stata una collaborazione straordinariamente preziosa per tutta una serie di difficoltà tecniche che il film sul set comportava. Ci sono blocchi in piano sequenza di 4 minuti dove si entra, si esce fuori campo, si va e si torna sul green screen. Poi è tutto girato, per nostra scelta, sia in full frame (con profondità di campo ridotta), sia a grand’angoli, sia con delle aperture di diaframma assolutamente di difficile resa dal punto di vista fotografico. Però dà questa idea della tridimensionalità, del gioco. E anche Peter Zeitlinger ha dichiarato che si è divertito, per lui è stato un felice ritorno.
Per ritornare alla tua domanda, però, ti posso dire che c’è un lavoro di manipolazione dei materiali d’archivio e di estensione che ho voluto fare per riflettere questa metrica della coscienza di Pasquale Abatangelo nell’esperimento. Già con i miei precedenti lavori avevo sperimentato queste varie tecniche di animazione manipolata con l’intelligenza artificiale e di commistione di materiali d’archivio, per dare anche un messaggio di come la memoria sia sempre problematica.
Musica e colori nel documentario di Tomaso Aramini
Sempre a proposito dello stile ci sono due elementi importanti: la musica e il colore. Iniziamo dalla musica. Come l’hai scelta?
Innanzitutto è stato un lavoro fatto al fianco del mio compositore (è il terzo lavoro che facciamo assieme), Eugenio Vatta, un grande maestro di musica elettronica. Io, in quanto grandissimo appassionato di musica elettronica e classica, le ho inserite entrambe in questo film. Poi mi piacciono molto gli archi perché settano la coscienza dello spettatore su delle frequenze di vigilanza emozionale e mi piace molto lavorare con il sintetizzatore perché affina la concentrazione. Questi sono i miei due parametri di riferimento. Su questi parametri e su delle metriche precise abbiamo costruito l’atmosfera del film. Anche qui con una scelta antinaturalistica. La violenza nel film è mimata, pertanto costruire dei foyer realistici sarebbe stata un’assoluta contraddizione. Invece abbiamo utilizzato percussioni, piatti, tutte queste sonorità che mimano, simulano la violenza, ma è una violenza intellettuale, è una violenza della memoria, è una violenza anche qui problematica.
Prima di iniziare il montaggio Eugenio mi ha proposto una trentina di temi, ne abbiamo discusso e li abbiamo riarrangiati e siamo arrivati al risultato finale. In questo modo non volevo cadere nel facile melò.
Invece sui colori? Penso non sia stata una scelta casuale il fatto che tendono quasi a scomparire, trasformando il documentario in un quasi bianco e nero in alcuni momenti precisi che corrispondono a una sorta di confessione da parte di Pasquale Abatangelo. Quando parla di lui, ma anche quando parla soprattutto di Anna, i colori scompaiono, quasi come se non volessi influenzare nessuno.
Sì, è stata una riflessione che ha maturato Peter, con la sua compagna Silvia, anche acting coach del film, poco prima dell’inizio delle riprese. C’è stata una lunga discussione sulla scenografia di questo film, molto complessa. Nel dialogare sul look del film è stata una loro proposta quella di scurire in alcuni momenti le pareti di queste nostre stanze, che abbiamo ripitturato di un grigio Kodak molto scuro. E devo dire che è stata una scelta assolutamente corretta e funzionale. Il film avrebbe avuto un minore impatto visivo e una minor riflessività, che è quella che tu hai perfettamente descritto e che è quella che volevamo trasmettere senza questa scelta.
Nelle interviste non si scelgono le risposte, si scelgono le domande
Aver inserito un giornalista all’interno del documentario aiuta a mantenere il filone dell’indagine che va di pari passo a quello dell’esperimento. La frase pronunciata alla fine “Nelle interviste non si scelgono le risposte, si scelgono le domande” è emblematica e alla base di tutto. Porsi le giuste domande porta anche a realizzare un film in un modo piuttosto che in un altro. Invece che domandartelo all’inizio te lo chiedo ora: che domanda ti sei posto per realizzare questo film? Qual è/era il tuo obiettivo?
La domanda era controversa, l’ho spesso detta quando presentavo il progetto. C’è una risposta che si cerca, ma che il film non trova. Una risposta a questa domanda: quando/come la violenza politica è necessaria?. Credo sia una domanda filosofica, politica importante, in un momento storico come questo dove la violenza è in mondovisione ogni giorno, quindi ha assunto una valenza contemporanea. La risposta è ci dovrebbe essere meno violenza possibile, nel senso che il cambiamento dovrebbe essere sempre in un qualche modo, in un mondo ideale, democratico, partecipativo, di massa, spontaneo, pacifico e ben determinato.
Noi abbiamo voluto interrogare Pasquale su questo attraverso le sue scelte, attraverso le sue contraddizioni e attraverso le sue ragioni, dopodiché, come dice Fulvio, noi le domande le abbiamo fatte e siamo stati il più rigorosi, onesti e trasparenti possibili. Le risposte di Pasquale sono state riportate così come lui le ha pronunciate nella loro problematicità, nel loro essere controversi, ma credo che sia una nostra scelta di impegno civile. Se questo film può avere un senso, appunto, è questo.
Tomaso Aramini: deve parlare il film
A seguito della proiezione del film, tra le tante cose che sono state dette, tu hai detto deve parlare il film.
Sì, ci sono state diverse polemiche che sono state, secondo me, strumentali, nel senso che si è parlato poco del film, ma piuttosto della presenza di un uomo a un festival. Noi ci siamo misurati con il cinema, ci siamo misurati con il documentario.
Io faccio il regista e quindi vorrei che fosse il film a parlare nella sua problematicità, anche perché è proprio questo il bello, che ci sia un dibattito franco, rigoroso, e ovviamente non mi voglio sottrarre alle domande sul film. Vorrei che parlasse davvero il film, che si finalizzasse il film nel merito e non in polemiche.
Sicuramente quello che è successo ha portato a un ritorno pubblicitario, in qualche modo. Noi, dal canto nostro, abbiamo messo tutto il nostro rigore, anche Fulvio che hai giustamente citato. Poi devo dire che non abbiamo fatto un lavoro di misurino dei minuti in cui ci doveva essere il dibattito, o meno. Tutto il processo non è stato assolutamente scritto, nella sceneggiatura c’era tutt’altro, però a un certo punto, in questo lunghissimo piano sequenza di 8/9 minuti, si è animato questo dibattito e credo sia stato un risultato molto prezioso, proprio per il dibattito civile di questo paese.
Sono Veronica e qui puoi trovare altri miei articoli