Dopo aver esordito, con Il cattivo poeta nel 2021, Gianluca Jodice ha diretto Le déluge Gli ultimi giorni di Maria Antonietta, presentato a Locarno e recentemente a France Odeon, con successo, per la direzione di Francesco Ranieri Martinotti.
Al cinema dal 21 Novembre con Bim Distribuzione.
Intervista al regista
Cosa l’ha spinta a dirigere questo film?
C’è stato un libro di uno storico italiano, scritto negli anni Cinquanta, che narrava il processo a Luigi XVI. Riportava le domande, le accuse dei rivoluzionari e le risposte del re. Sono le cose minuscole che ti spingono a fare il film. Nel leggere il libro, mi aveva colpito un piccolissimo aneddoto. Nel momento che il re passava per andare sul patibolo, un rivoluzionario, in un salotto con altri che avevano sposato la sua stessa causa, ricorda che Luigi XVI amava il suo cane e lo accarezzava. Mi sembrava una frase che illuminasse bene il concetto edipico che il re non è solo il tuo nemico, ma è anche Dio e tuo padre.
Il libro raccontava il processo. Perché allora non impaginare un court-movie?
Ho fatto, invece, un prison-drama, dove i carcerati erano Maria Antonietta e il re Lugi XVI. Il film racconta fedelmente quello che avvenne. I rivoluzionari obbligarono infatti Maria Antonietta a suonare la Marsigliese. La loro violenza fu tale che il capo della Comune di Parigi fu ghigliottinato, perché considerato troppo morbido con i reali. A me, poi, non interessava mostrare la ghigliottina. Era più forte parlarne che entrare nel dettaglio neorealistico.
Potrebbe essere accusato di aver girato un film di “destra” perché è stato fin troppo indulgente verso i reali; chi è in sala si intenerisce nel vedere la loro sofferenza.
Innanzitutto, non se ne poteva più dei film con i rivoluzionari con la faccia sporca. Questo è un frammento che neanche i Francesi hanno raccontato. Scrivendo e girando il film sono consapevole delle eventuali critiche che si baseranno probabilmente su questa supposta empatia. Capisco che è un equilibrio delicato. Non ho fatto un film sul dolore dei due protagonisti. Per me è un’esemplificazione inaccettabile. Con la morte del re cade un paradigma politico e religioso, dal momento che al tempo Luigi XVI era considerato un monarca che rappresentava Dio in terra.
Nel film si vede chiaramente come Maria Antonietta fosse emotivamente distante dal re. Sul finale, invece, si riavvicina a Luigi XVI.
Erano due estranei. Il loro matrimonio era legato all’idea di far sposare la Francia con l’Austria. Maria Antonietta aveva uno spirito adolescenziale, era più libera, soffriva la corte di Versailles, molto diversa da quella austriaca. Fatta prigioniera, aveva sviluppato maturità e disperazione, fino a diventare più affettuosa e una moglie più presente. D’altra parte, secondo alcuni storici, Luigi XVI pare fosse affetto dalla Sindrome di Asperger. Era, infatti, anaffettivo; non aveva una dimensione sessuale e relazionale.
La scelta del cast e il rapporto con gli attori sul set?
Avevo alle spalle solo un film e non sono francese. In Francia, inoltre, c’è un sistema molto forte e chiuso. Ho mandato la sceneggiatura, che è piaciuta moltissimo, e il casting. É stato poi tutto in discesa. Sia Guillaume Canet, che interpretava Luigi XVI, che Mélanie Laurent, Maria Antonietta nel film, erano interessati al lato umano dei loro personaggi. Quando si lavora con due professionisti, il lavoro è sempre più facile. L’ansia e le preoccupazioni svaniscono all’istante. Entrambi, per tutte le sette settimane di lavorazione, sono stati austeri e disciplinati. Guillaume era un po’ più nervoso, perché in quel periodo era uscito Asterix, una mega-produzione che in Francia non è andata benissimo. Da aggiungere che si svegliava ogni giorno alle quattro, per sottoporsi a quattro ore di trucco. Un’altra idea vincente del film è stata quella di aver donato ai protagonisti, chiusi in cella, un solo vestito, fino a vederli, spogliati, in vestaglia.
Ci vuole parlare della suddivisione in tre atti del film?
Mi è piaciuto, inizialmente, mostrare i salotti del Settecento per poi desertificarli nella prigione nella Torre del Tempio, ricostruita al computer. Napoleone, infatti, la fece abbattere perché la considerava il rifugio dei nostalgici della monarchia. Anche lo stile della mdp cambia. Nel primo atto è tutto camera fissa. Poi, per dare una dimensione più terrena e nervosa ai personaggi, sono passato alla macchina a mano, uno stilema non molto frequentato dai film storici. Nel terzo atto, per mostrare la vicinanza dei carcerieri ai reali, ho scelto molti primi piani e una dimensione più dolce, meno violenta. Ho letto, infatti, che nei giorni prossimi alla fine, c’è stata una corrente di affetto verso i reali, differente ai primi giorni, suggellati da provocazioni e aggressioni continue, che non ho messo per evitare di sottolinearne la mostruosità.
Il suo film è ambientato in Francia e in piena Rivoluzione Francese. Anche lei, come tanti suoi colleghi, non riesce a raccontare il presente. Cito qualche esempio: Bellocchio gira Rapito, ambientato nel 1851; Moretti Il sol dell’avvenire, nel 1956 e, recentemente Salvatores con Napoli New York narra di due scugnizzi che vanno in America nell’immediato dopoguerra.
Il prossimo film, che farò a Londra, avrà sicuramente un’ambientazione contemporanea. Penso che un film storico parli sempre più del periodo in cui è girato, che dell’’epoca che racconta. Sono anche sospettoso quando vedo film che riscuotono anche un certo successo presso la critica e il pubblico, che si muovono troppo in una “comfort zone” autoriale e conservativa. Quello anche a me dà fastidio perché ci vedo una fuga dalla complessità del reale.
Vedi anche: l’intervista di Taxi Drivers a Paolo Sorrentino
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