In occasione della Festa del Cinema di Roma abbiamo incontrato Luca Severi, regista e produttore (LSPG) de I racconti del Mare, in concorso nella sezione indipendente Alice nella città, e l’attore protagonista del film Luka Zunic.
I racconti del mare è un film che segue e osserva lo sviluppo di un sogno decisamente lucido, fatto dal giovane Tonino (Luka Zunic), il quale si trova d’improvviso solo, su una barchetta in mezzo al mare aperto. La sua solitudine, però, è presto interrotta da un incontro tanto bizzarro quanto sorprendente con il “polpo nero” Ima (Khadim Faye).
Leggi qui gli articoli sulla Festa del cinema di Roma.
I racconti del mare| Intervista al produttore e protagonista
Ne I racconti del mare, l’ironia è una delle chiavi principali e costituisce anche la grande forza dell’opera. Quanto è importante riuscire a toccare temi così delicati con leggerezza e un sorriso?
Luca Severi: Su questo devo dire, non ci siamo inventati niente. Abbiamo forse solo imparato bene la lezione della tradizione italiana, fatta di film dolceamari che trattano temi drammatici e personaggi controversi con leggerezza, usando la commedia appunto.
Non oso neanche minimamente compararmi a loro, ma essendo stati quelli i grandissimi maestri del cinema italiano, io ovviamente li guardo con ammirazione e cerco di imparare, capire e tradurre, con i mezzi moderni, lo stesso sapore.
De Sica, Risi, Scola, Monicelli, stiamo parlando dell’Olimpo del cinema mondiale che ha usato, anzi, ha inventato, quell’escamotage che noi abbiamo cercato di replicare.
Il mare, elemento centrale del film come suggerito dal titolo, va oltre il suo significato tradizionale, trasformandosi in uno spazio onirico dove tutto è possibile. Quale ruolo simbolico riveste realmente il mare in questo film?
L.S.: Questo è interessante perché nel film il mare ha molteplici significati. Secondo me cambia con l’arco narrativo, attraverso il quale cambiano anche i nostri protagonisti. Perché quando noi pensiamo al mare, la prima cosa che ci viene in mente sono le vacanze, ma quando invece pensiamo al mare aperto e a una barca solitaria, le cose cambiano: trovarsi in mezzo al nulla, circondati dall’acqua, senza vedere la costa, è un’esperienza estremamente angosciante. Anche se sei nel comfort di un viaggio di vacanza. A maggior ragione un mare mosso e agitato, come quello che si vede nel film.
Il mare dunque inizia come ostacolo per i due ragazzini, che si trovano soli su una “bagnarola” in quelle condizioni. È un elemento di enorme difficoltà, inquietudine e paura. Poi però è anche un mare che, in qualche modo, li protegge e da cui, alla fine, vengono salvati.
Il mare dunque cambia, ma mai come un elemento di vero antagonismo. Magari come un ostacolo, però non mi ha mai fatto paura. Io poi sono figlio di un regatista e non ho mai pensato al mare come un nemico.
Approfittando delle tue parole, vorrei evocare il senso di protezione che il mare può offrire. Esiste una vecchia tradizione marinaresca che dice che, quando due persone sono in conflitto, bisogna lasciarle su un’isola deserta finché non si chiariscono. Oggi i momenti di vero confronto stanno diventando sempre più rari, e spesso ci nascondiamo dietro il muro delle nostre convinzioni. Qual è, secondo te, il punto di contatto che permette ai giovani di superare le loro differenze e ritrovare un legame autentico?
L.S.: È il superamento di un pregiudizio che, a mio avviso, è quasi sempre un pregiudizio ideologico o di comunicazione. Io credo che il tema dei migranti sia trattato e viene visto, anche da noi cittadini, come un problema per il modo in cui ci viene comunicato e per gli aspetti ideologici che gli vengono assegnati.
Quando tu cancelli l’attenzione da questi elementi e la sposti su un incontro, un scontro anche, o comunque un confronto tra esseri umani, fra persone, il tema cambia completamente prospettiva. E questa cosa è dimostrata dai fatti.
Quali fatti? Ognuno di noi ha amici di altre culture, che parlano altre lingue. Noi siamo stati in Erasmus, abbiamo lavorato in giro per il mondo, abbiamo la fidanzata vietnamita, mangiamo giapponese, parliamo in inglese, leggiamo i testi in russo, perché non vogliamo la traduzione, andiamo a mangiare eritreo a Milano, guardiamo i giornali con le modelle o i modelli più belli del mondo di ogni cultura e colore. Tutto ciò è parte della nostra vita, anche se non lo sappiamo.
L’esempio che faccio sempre è il mio: sono stato 15 anni negli Stati Uniti e nessuno mi ha mai detto “beh certo tu sei un migrante economico, no?”. Anzi, mi è sempre stato detto “tu hai seguito il tuo sogno a Hollywood”.
Questo è un cambio di prospettiva. A seconda di come tu dipingi un tema, cambia completamente la narrazione ad esso legata e anche l’approccio. È chiaro che, nel momento in cui la narrazione è sempre critica, problematica, di nuovo ideologica, il tema assume sembianze molto strane.
I nostri ragazzini sono semplicemente due ragazzini. Di cosa parlano? Di ragazze, di calcio, di musica, dei genitori che rompono, del fatto che tremano di paura perché sono soli in mezzo al mare. Un aspetto che ho notato dopo, guardando il premontato. Nonostante tutti i problemi, stanno vivendo l’avventura più bella della loro vita. Una storia che racconteranno per tutti gli anni a venire. E il meglio è proprio divertirsi, distraendosi dai cattivi pensieri. Perché loro comunque sono degli eroi!
Togliendo tutto il substrato e l’ipocrisia ideologici, torniamo a parlare di persone, nel nostro caso di ragazzini. E ovviamente il sotto testo è questo: ogni volta che lasciamo una di queste persone in mezzo al mare, cosa stiamo perdendo? Secondo me parecchio. Se cominciamo a parlarci un po’ di più, ci guadagniamo qualcosa.
Tonino e Ima si sono persi in questo mare, un’esperienza che tutti, da ragazzini, abbiamo vissuto e che forse continuiamo a vivere. Ci sono momenti in cui ci sentiamo più smarriti di altri. Vorrei chiederti: qual è la tua bussola personale nei momenti di smarrimento? E quale, invece, è la bussola di Tonino?
Luka Zunic: A livello personale è la mia famiglia, cerco di farla stare bene e di renderla orgogliosa. Per quanto riguarda Tonino, ti direi che la sua bussola è proprio Ima. Quell’incontro gli salva la vita, perché forse da solo sarebbe morto, non sarebbe riuscito ad andare avanti. È proprio il rapporto d’amicizia stesso la guida.
Nel film, Tonino vive una situazione familiare problematica, in cui i problemi sembrano essere soprattutto di comunicazione. Oggi molti genitori adottano l’approccio della madre di Tonino: sempre comprensivi e protettivi verso i propri figli, anche quando si mettono in situazioni rischiose. Tuttavia, è altrettanto importante avere qualcuno che ci faccia confrontare con la realtà, che ci ricordi che il mondo non è sempre facile e che, come si dice, ‘il mare non permette sbagli’. Tu come vivi questa dicotomia tra il desiderio di comprensione e il bisogno di una guida capace di mettere dei limiti?
L.Z.: Vengo da una famiglia dell’Est Europa, quindi la mia educazione è stata per certi versi simile a quella di Tonino. Mio padre mi ha sempre sbattuto la verità in faccia, non mi ha mai raccontato un mondo fatato. Quindi sì, conosco molto bene quella sensazione, anche se oggi la vivo in maniera più consapevole, e ne vedo i frutti. Girando le scene con il padre, ho proprio cercato di risentire quelle sensazioni che provavo da bambino.
Per me è fondamentale avere qualcuno che mi dice le cose come stanno, perché mi fa sentire di non essere solo. Tonino si chiude quando sente le parole dure del padre. In realtà però, secondo me, se avessimo modo di vedere Tonino tra 5 anni, cresciuto, magari ringrazierebbe suo padre per quello che ha avuto la fermezza di dirgli.
Oltre a essere regista, sei anche produttore di questo film. Quali sono state le sfide produttive più impegnative che hai affrontato per portare a termine il progetto? Ci sono stati aspetti particolari, come le ambientazioni o il budget, che hanno richiesto soluzioni creative?
L.S.: La sfida principale nella realizzazione di questo film è stata realizzare questo film! Nel senso che è stata un’impresa epica, mi sento di dire. Per la difficoltà di girare in location, è tutto girato realmente in mare, a largo, non sotto costa, perché problemi meteorologici ci hanno obbligato ad abbandonare la location che avevamo scelto. Era un golfo bellissimo a sud di Taranto, protetto, a cui abbiamo dovuto rinunciare. Abbiamo vissuto settimane veramente un po’ come Tonino e Ima. Anche noi su “barchine” che dovevano servire solo come supporto, invece sono diventate il nostro set quotidiano.
E poi ci sono state delle sfide anche di contorno. Innanzitutto guadagnare la fiducia degli attori, che non è stato particolarmente difficile, nel senso che credo la sceneggiatura li abbia convinti abbastanza rapidamente, grazie al lavoro di Dino Sardella (lo sceneggiatore, ndr.). Gli attori si sono spesi in prima persona, come Lidia Vitale, per la realizzazione del film e per il coinvolgimento di altri attori con i quali noi non avevamo contatto, che si sono rivelati poi professionisti bravissimi e fondamentali. Mi riferisco in particolare a Geno Diana e a Paola Sotgiu.
Dovevo poi riuscire a convincere la troupe. Ho la fortuna di lavorare con un gruppo di gente un po’ squilibrata, e quindi non è stato difficile. Mentre lo è stato reagire alle difficoltà operative che ci siamo trovati di fronte sul set. Il film ha rischiato di essere interrotto tre volte in corso di produzione.
Dietro però c’è una strategia produttiva, assolutamente esplicita, che si ispira al cinema indie americano. Secondo me queste sono storie molto importanti da raccontare, non fosse altro perché c’è un pubblico che non vede l’ora di vederle. Una buona fetta di pubblico si sta disaffezionando alle produzioni più grandi, più blasonate, che magari utilizzano mezzi tecnici più importanti, e sta iniziando a cercare storie e personaggi più forti, dimensioni più intime, più emozionanti, ed è disposta a cercarli nei circuiti di cinema più piccoli, nelle periferie, nei festival, eccetera.
Ecco, noi stiamo cercando di percorrere questa strada: realizzare film quasi impossibili, che si realizzano solo per volontà della produzione, della troupe, degli attori, di tutto il team che compone la compagine produttiva.
Ovviamente questo impone delle semplificazioni operative, che complicano lo sforzo. Speriamo di convincere tutto il resto del settore e di continuare ad avere la fiducia di chi ci ha aiutato a fare questo film, anche per i prossimi.
Possiamo dire che è così che si raggiunge l’essenza vera del cinema? Oggi, le grandi produzioni sembrano allontanarsi dal cuore stesso del cinema, puntando più sui numeri che sul significato. Quanto è importante per te che i film comunichino qualcosa di autentico, al di là del successo commerciale?
L.S.: Io non ho la presunzione di pensare che siamo gli unici che fanno cinema vero, perché il cinema si declina in molte modalità operative e anche tecniche, però c’è un fattore. Nel momento in cui hai una troupe di poche persone, tutti sentono che quella è l’opera in cui investire le proprie energie verso uno scopo comune. Queste sono cose molto banali che però oggettivamente creano un legame molto particolare. Il nostro, per fortuna, è un lavoro che si fa con la passione, più di tutto il resto, perché non c’è cachet che possa comprare il coinvolgimento emotivo.
Ecco, io credo che il coinvolgimento e la passione siano prioritari ed è il motivo per cui abbiamo scelto questo filone. Quindi io preferisco fare e produrre molto in piccola scala, seguendo il filone dell’indie piuttosto che quello, diciamo, più tradizionale dei grandi budget delle major.