Ci sono debutti cinematografici in grado di sorprendere, facendo breccia nel cuore del pubblico e della critica. Film d’esordio che fanno capire subito come certe regie siano destinate a durare nel tempo: è il caso di queste cinque prime nel mondo dei lungometraggi. Il primo è quello di Claire Denis che inserisce la sua storia personale in Chocolat, dove l’esotico e il politico si mescolano sapientemente. C’è poi Sofia Coppola che ci inoltra nel suo universo femminile con Il giardino delle vergini suicide. Invece Joanna Hogg con Unrelated approda al cinema in un’esplorazione penetrante dei benestanti con le loro dicotomie. E come non menzionare Justine Triet, che imprime da subito il suo stile in La Bataille de Solferino, commedia frenetica tra elezioni e crisi famigliari. In ultimo Chloé Zhao che con Songs My Brothers Taught Me ci inizia al suo cinema sociale e malinconico.
Per motivi differenti sono tutti riusciti ad imprimere la poetica di chi li ha realizzati in modo significativo. Per cui consigliamo di recuperarli nel caso non lo si fosse ancora fatto. E ancora una volta è Mubi ad avere questi film d’esordio in catalogo.
Chocolat (Claire Denis, 1988)
In Chocolat non sembra succedere molto a livello di trama, ma tanto di ciò che accade è implicito e potente. È ambientato principalmente nella colonia del Camerun dell’Africa occidentale alla fine degli anni ’50, durante gli ultimi anni del controllo francese. Il film emerge dai ricordi di una giovane donna francese che torna nello stato africano, dove anni fa suo padre lavorava come deputato distrettuale. Guardando il paesaggio che lampeggia da un finestrino, France (Mireille Perrier) viene trascinata nelle sue memorie di un tempo passato. Ha attraversato quei luoghi coi suoi genitori, Aimée (Giulia Boschi) e Marc (Francois Cluzet) e con il loro domestico Protée (Isaach de Bankolé). Il legame tra quest’ultimo e la giovane protagonista (Cecile Ducasse) è il punto cardinale. E, ad eccezione di enigmi che l’uomo pone alla piccola, c’è solo un dialogo intenso di sguardi e intese scambiati, scarno di parole.
Denis si è fatta conoscere al pubblico con Chocolat nel 1988 dopo una serie di fruttuosi stage con Costa-Gavras, Wim Wenders e Jim Jarmush. Quando ha creato il primo lungometraggio aveva già 40 anni. E questo spiega la serena fiducia che permea tutta la vicenda. Sa cosa dire e come vuole dirlo, senza incertezze da principiante.
La pellicola usa i temi del colonialismo, del desiderio, della memoria e dell’infanzia per raccontare un sogno sensuale. La narrazione segue un anno di vita di Frances: la partenza del padre in un’altra regione, Protée che diventa l’uomo di casa. E poi l’arrivo di un ospite e in seguito di un gruppo inaspettato da un aereo caduto. Ma tutti questi eventi non sono importanti, ciò che conta sono gli spazi e i silenzi.
La vicenda è autobiografica, anche se la regista usa i suoi ricordi per raccontare qualcosa di più grande a livello politico e filosofico. Infatti il film è pieno di sequenze che con la sola forza delle immagini trasmettono gli interessi del suo cinema. Come il branco dei camerunensi che cerca di prendersi il proprio spazio in una terra di coloni. Ma anche la non secondaria intesa voluttuosa tra il domestico e Aimée. Non a caso la ricerca di casa, la sensazione di essere un intruso e il mistero dello straniero sono tutti temi che ritornano nella sua filmografia. La cineasta disegna la storia attraverso il paesaggio africano, con una fotografia evocativa, per rendere la campagna stessa un personaggio del dramma. I bianchi che sfrecciano in auto per cercare un medico nella chiesa in cui si trova una folla autoctona suggerisce probabili rivolte future.
L’artista francese fa in modo che la politica e il sesso si intreccino. La tensione erotica tra la mamma di Frances e il camerunense è il catalizzatore nascosto della lotta tra le razze in quella terra. La passione non è il crimine ma è l’elemento che svela questa guerra. E il rapporto tra i due richiama quello tra servo (il faccendiere nero) e padrone (la donna bianca). Quando Marc se ne va nella spedizione, rimangano fermi in un corteggiamento solenne senza che nessuno dei due faccia davvero qualcosa. In svariati momenti sembra che ricalchino le figure della mitologia con sfida, rabbia, desiderio. E sullo sfondo sempre gli altri personaggi. L’ombra di coloni in terra straniera, che riporta alla realtà sociale dell’ambientazione.
È interessante come Protée non si sappia mai davvero chi sia, dato che lo conosciamo attraverso gli occhi della giovane. Perché è li che rimane tutto: nella memoria, nei sogni, nel tempo e nella storia. Questo film annuncia una regista che ci inizia ad una sensibilità singolare. Una voce unica nel cinema che cattura la perversione delle relazioni umane con un’estetica evocativa. Se si vuole conoscere meglio il cinema di Claire Denis, Chocolat è in assoluto il punto di partenza.
Proteée e Frances in una scena del film Chocolat
Il giardino delle vergini suicide (Sofia Coppola, 1999)
Sofia Coppola ha debuttato al cinema con un adattamento dal romanzo di Jeffrey Eugenides, Le vergini suicide, dando avvio ad un’ideale trilogia della giovinezza inqueta che si completa con Lost in translation (2003) e Marie Antoinette (2006). Con la storia del 1999 si è data due obiettivi: ritrarre la delicata miscela di malinconia e sogni adulti dell’adolescenza e il ricreare la vita suburbana americana degli anni ’70. Tutti gli elementi del suo film – le performance attoriali, la fotografia, la colonna sonora soft rock, i temi – diventeranno i capisaldi del suo cinema. In questo caso la sua capacità sta nel nascondere, dietro la calma apparente di una Detroit soleggiata, una storia scioccante. Un’orribile tragedia mascherata da un film di formazione per adolescenti. Ed è qui che entra in gioco la poetica della regista. Un’abilità rara di rappresentare il vuoto e l’incapacità di farsi capire dal mondo adulto delle ragazze.
La storia segue cinque sorelle adolescenti, Cecile (Hanna Hall), Lux (Kirsten Dunst), Mary (A. J. Cook), Bonnie (Chelse Swain) e Therese (Leslie Hayman), le quali, come suggerisce il narratore, si sono tutte uccise. Il film risale alle origini e tenta di svelare, attraverso le voci dei ragazzi vicini di casa, i motivi per cui può essere successo. La pellicola non tenta di glorificare o satirizzare il suicidio. È anche piuttosto difficile incarnarlo in un genere preciso poiché Coppola ha creato dettami molto peculiari. Il personaggio di Dunst ad esempio, incarna alla perfezione il sentimento di ribellione e provocazione che esplode negli anni adolescenziali.
Piuttosto che svelarci i pensieri delle protagoniste, la cineasta usa la fotocamera come strumento di distanziamento, costringendoci a spiare da lontano, come i maschi del quartiere innamorati di loro, che le studiano dalle finestre domestiche. Come loro, ci sentiamo estranei e percepiamo la claustrofobia delle vite delle sorelle.
Dopo che Cecile accenna ad un moto suicida, i genitori (esageratamente conservatori) veicolano la loro socialità. Ma spesso queste situazioni sono incontrollabili e la più disinibita delle ragazzine si spinge oltre, sancendo l’inizio di una catastrofe. Il padre e la madre, ben interpretati da Kathleen Turner e James Woods, sono rigorosi, rispecchiano i valori cattolici della classe media. Sono quello che sono, non cattivi né martiri. Le domande non hanno risposte chiare, non si sa perché succedano i tanti fatti drammatici. E ciò è ancora di più difficile comprensione perché nessun personaggio esprime mai esplicitamente dolore o altro. Il film lascia aperti gli enigmi, figlio di quel Picnic ad Hanging Rock (1989) che sicuramente ha guidato la cineasta. Dalla prima all’ultima inquadratura, dall’acconciatura del rubacuori Trip (Josh Hartnett) ai dischi rock e agli abiti, non c’è nulla di forzato o fuori posto.
Ciò che la regista ottiene è quella sensazione di deriva adolescenziale, quando le correnti della vita sembrano bloccarsi tra le rive dell’infanzia e dell’età adulta. E questo è ciò che ha permeato l’intero universo coppoliano; da Somewhere (2002) a Bling Ring (2012) fino al recente Priscilla (2023). Il lungometraggio del ’99 è stato in grado di dare una visione sovversiva e inquieta del mondo femminile. Un racconto triste, bello, aritmico nel modo in cui può esserlo la vita reale. È un debutto degno di nota; la figlia d’arte si dimostra un talento in erba, una regista di talento e una sceneggiatrice sensibile. Con Il giardino delle vergini suicide ha dato avvio ad un’estetica cinematografica contemporanea unica, da cui non si può prescindere se si vuole conoscere il suo straordinario mondo.
Il giardino delle vergini suicide, una scena con quattro sorelle protagoniste
Unrelated (Joanna Hogg, 2007)
Unrelated è il primo film di Joanna Hogg ed è uno studio sensibile, avvincente e sorprendente della classe media agiata. Al centro ci sono una villa fuori Siena, due famiglie fratturate e benestanti in vacanza e un’altra donna. Quest’ultima arriva in Toscana con un bagaglio emotivo in eccesso, lasciando alcuni dolori in Gran Bretagna.
La firma registica di The Eternal Daughter (2022) affida molto dell’intreccio ad Anna (Kathryn Worth), un’anima triste e amica storica di Verena (Mary Roscoe). Quest’ultima è una signora affabile che si sta godendo l’estate assieme al nuovo marito, un altro conoscente e i vari figli adolescenti. Un trauma nascosto sta veicolando negativamente il comportamento dell’ospite femminile, e così si allontana dagli adulti sempre più intrigata dai giovani. Si avvicina a Etonian Oakley (Tom Hiddleston, all’esordio), il più anziano tra i ragazzi, la cui maturità non è ancora pervenuta.
Tra le ondulate campagne italiane e le cicali ronzanti, la protagonista cerca una boccata d’aria dalla sua vita. Per questo passa il tempo coi giovani ubriachi, vivaci e spavaldi, come nel caso di Oakley jr. Tra i due si instaura una tensione fisica che porta alla luce altre pressioni segrete. Una telefonata di Anna al marito, e il rapporto che emerge col personaggio di Hiddleston, fanno capire che le cose vanno in direzione opposta rispetto all’apparenza idilliaca. La regista punta su un senso dello scomodo che disturba la cornice da film sognante, alla Rohmer.
Costruisce la storia attorno alla performance pacata e intima di Worth. Una donna fuori luogo e fuori passo con la vita. All’aeroporto non la va a prendere nessuno, ritrovandosi poi leggermente ai margini del gruppo vacanziero, non adattandocisi mai davvero. I temi centrali ruotano attorno alla crisi di mezza età femminile. Quindi l’identità sessuale e la visione del mondo che cambia in base al fatto che si abbiano o meno avuto figli. Come anche nei film successivi di Hogg, è interessante la scelta di indugiare sui personaggi mentre l’azione madre si svolge altrove. Ne è un esempio la lite tra Oakley senior e il figlio, dove l’immagine stanzia sulla piscina e non sulle urla che si sentono dal casolare.
L’approccio non convenzionale ci spinge a testimoniare l’acuto disagio di tutti gli altri personaggi. È un modo di raccontare le fratture sociali, le interazioni, le reazioni. Un po’ figlia del realismo sociale del cinema britannico di Mike Leigh e Ken Loach, anche se a differenza loro l’ambientazione qui è medio borghese. Ma anche del cinema di Eric Rohmer, dove spesso viene usata la vacanza estiva come eccezionale lente con cui sezionare l’identità individuale e le dinamiche di gruppo/famigliari.
Il film d’esordio della britannica è poco conosciuto, ma meriterebbe la sua visione per come racconta l’interiorità femminile in modo nitido, con una forte onestà emotiva. E si impone come un’ottima porta d’ingresso per conoscere il cinema della regista inglese.
Unrelated, il gruppo in vacanza
La Bataille de Solferino (Justine Triet, 2012)
Il lungometraggio ha suscitato scalpore quando ha debuttato a Cannes nel 2013. I suoi 90 minuti di pianti, urla e litigi convulsi di bambini e adulti non lasciano indifferenti. Il film d’esordio di Justine Triet all’inizio pare gettare le basi per una frenetica commedia familiare. Proseguendo sembra invece diventare un’analisi sul bilanciamento tra maternità e lavoro. Ma pure sulle complicanze che insorgono durante una separazione agitata.
Laetitia (Laetitia Dosch) è una giornalista che segue le tese elezioni presidenziali del 2012, sempre in costante ritardo al lavoro. Come se ciò non bastasse, sta cercando di gestire un babysitter per i suoi due bambini. Deve anche barcamenarsi tra un nuovo fidanzato e Vincent (Vincent Macaigne), ex marito e padre delle figlie.
Ciò che distingue subito la visione è la sua rinfrescante combinazione di elementi documentaristici e di finzione. Sebbene il dramma domestico centrale sia immaginario, il vortice politico che si svolge sullo sfondo è molto reale. Infatti gran parte del lavoro è stato girato nelle strade di Parigi durante le elezioni nazionali del 2012. I dialoghi che scorrono spontanei e la sensazione di prodotto a basso budget aggiungono un’autenticità in ottima linea con gli eventi sociali paralleli. Laetitia e Vincent sono frustrati in modo convincente. Una scena chiave vede il bambinaio travolto dalla folla che manifesta e dalle diatribe coniugali che ben riassume la frenesia vera del film.
Sono i litigi, i nervosismi e i sentimenti delle migliaia di persone reali che aggiungono una dose speciale di tensione alla storia. E in un modo che sarebbe non raggiungibile in circostanze artificiali.
Un terzo personaggio viene introdotto sotto forma di alleato del protagonista, il quasi avvocato Arthur (Arthur Harari). Per empatia, o forse per pietà, quest’ultimo decide di aiutare l’amico ed è con lui che si entra in un climax emozionale. Tra urla e risate, le straordinarie prove attoriali riescono a mantenere impegnata l’attenzione. Coloro che cercano ilarità tengano presente che questo ritratto di una famiglia moderna che cerca di far funzionare le cose susciterà più sospiri empatici che risa. Invece, per chi ha a che fare con circostanze simili, sarà tutto estremamente familiare.
È una pellicola equilibrata, concettualmente originale e godibile. Se nella prima parte la resa è confusa e agitata, nella seconda le acque si calmano e cercano di stabilizzarsi. È meglio guardare il film quando si è tranquilli, seduti sul divano e con un bicchiere di vino in mano. La Bataille de Solferino è una sorpresa poco riconosciuta della stessa mano registica del pluripremiato Anatomia di una caduta (2023), che vale la pena recuperare.
La battaglia di Solferino, un litigio tra Laetitia e Vincent
Songs My Brothers Taught Me (Chloé Zhao, 2015)
La pellicola d’esordio di Chloé Zhao è stata girata nella riserva indiana di Pine Ridge con giovani attori Lakota. Ed esplora il legame tra un fratello e una sorella che si ritrovano per riscoprire cosa significa casa. Affronta in modo lento e delicato gli stereotipi sul mondo degli indiani; tra gli effetti dell’alcolismo, l’economia che non c’è, i rapporti fraterni. Con una fotografia meravigliosa, artefice di paesaggi espressivi, che fa da elemento protagonista all’andamento lento del film.
Johnny (John Reddy), finita la scuola, vuole lasciare la riserva con la sua ragazza (Taysha Fuller) per cercare una nuova vita a Los Angeles. Sua sorella minore Jashuan (Jashuan St. John) lo adora ma è anche preoccupata per lui. Hanno altri fratelli, che rimangono figure secondarie, e uno di loro si trova in carcere. Il padre muore per un incidente, la bussola del loro riferimento svanisce. E mentre la loro madre cerca di rimettere in piedi la loro vita, Johnny si barcamena tra vendita di liquori e una vita non proprio quadrata.
La trama si svolge senza particolari colpi di scena, tra dialoghi interni alle mura sui problemi dei protagonisti e scorci delle grandi pianure americane. Ci sono momenti che occasionalmente diventano teneri. Ne sono un esempio una semplice passeggiata a cavallo o quando un personaggio secondario poco raccomandabile si ammorbidisce raccontando la sua passione per l’abbigliamento. Oppure quando il professore chiede ai ragazzi cosa vogliano fare da grandi. È una narrazione che prende forma dalla quotidianità della vita nel mondo indiano.
Un elemento importante è dato dal fatto che Zhao è nativa cinese emigrata negli Stati Uniti da sola quando aveva 14 anni. Mentre si trovava a New York è venuta a conoscenza dell’alto tasso di suicidi all’interno di alcune tribù di nativi e ha deciso di studiarli da vicino. Ha trascorso un paio d’anni all’interno della comunità indiana che racconta nel film per adattarsi alla loro realtà. Molti autori di cinema trattano i luoghi come liste qualsiasi dove ambientare le loro storie, non investendo in nessuna cultura. La cineasta invece si è dimenticata di se per etnograficamente carpire gli indigeni nordamericani. Come ha fatto nel successivo Nomadland (2020), scegliendo di vivere per mesi a stretto contatto coi nuovi nomadi statunitensi.
Il cinema dell’artista cinese è attaccato alla storia sociale e culturale di ciò che racconta. Songs My Brothers Taught Me non perpetua l’idea che i nativi appartengano ad un passato romantico e idealizzato, ma che sia piuttosto una realtà che esiste e prosperi nel mondo attuale. Il protagonista vende alcolici e questo a Pine Ridge non sarebbe ammesso, ci sono quindi conseguenze. Ma nel suo film d’esordio regista non giudica i suoi personaggi per i comportamenti sbagliati, la storia non si assume la responsabilità di educare i bianchi. Questa è una nota importante. Tanti colleghi che raccontano le esistenze nelle riserve sono nell’ottica di offrire spiegazioni sul mondo indiano per gli estranei. Zhao invece si addentra nel loro mondo. Non a caso ha proiettato in anteprima il racconto al Nunpa Theatre, nella stessa comunità in cui è stato prodotto.
La pellicola riporta alcune prospettive molto perspicaci e sfumate che senza dubbio riflettono la capacità di adattarsi alle culture narrate. Il lavoro del 2015 è stato paragonato al cinema di Terrence Malick, poiché la regista ha creato un ritratto contemporaneo e assennato. E Songs My Brothers Taught Me apre le porte alla sua visione cinematografica, dove realtà dimenticate e realismo sociale diventano terreno fertile per storie coinvolgenti e delicate. Anche questo lungometraggio è quindi da mettere in lista tra quelli da vedere.
I due fratelli in una scena di “Songs My Brothers Taugh Me”