Su MUBI è disponibile INLAND EMPIRE (tutto maiuscolo per volontà del regista) di David Lynch, lungometraggio presentato fuori concorso nel 2006 alla Mostra del cinema di Venezia in occasione del conferimento del Leone d’oro alla carriera. Non una pellicola testamentaria, né un suggello definitivo a una carriera poliedrica tra cinema, tv, pittura, design e altri media ancora in fieri, ma l’ideale capitolo finale e non dichiarato di una pluridecennale esplorazione dell’inconscio inaugurata con il film d’esordio Eraserhead (1977). Nel cast un’intensa Laura Dern, Jeremy Irons, Justin Theroux.
Meno citato e rilanciato di altri lavori di Lynch (forse anche per il confronto arduo con il precedente ed epocale Mulholland Drive), dietro le deviazioni, le sovrapposizioni, le schegge di personaggi, motivi e sottotrame, INLAND EMPIRE cela l’invito di David Lynch a perdere se stessi “in acque profonde”, a riaffiorare da un tenebroso e vorace viaggio interiore dove l’unicum e il frammento coincidono contenendosi a vicenda, infine ad emanciparsi dai dettami standardizzati e accomodanti del mare magnum audiovisivo.
Assurto dalla critica a “film-mandala” (Morandini), è un sogno bluastro, ancora hollywoodiano, che sprigiona scomposta bellezza nelle deformazioni visionarie dell’ignoto e dell’incubo, nei lampi intermittenti di fragilità e delirio, nelle spezzature narrative anomale e frastornanti, all’insegna della conquista finale della felicità in un sospirato ritorno a casa.
Sentieri di trame apparentemente sconnesse
In Polonia un’infelice ragazza oppressa dal marito – definita nei credits Lost Girl – forse ex prostituta, si sintonizza su un televisore dove scorre la vicenda di Nikki Grace (Laura Dern). Ricca attrice di Los Angeles, Nikki viene ingaggiata da un apprezzato regista, Kingsley Stewart (Jeremy Irons), per interpretare la protagonista di “Il buio cielo del domani”, remake di un film polacco incompleto e maledetto, su cui Nikki aveva ascoltato sibillini e sinistri avvertimenti da un’inquietante sensitiva (Grace Zabriskie).
Durante le riprese l’attrice si innamora del suo partner di lavoro, Billy Side (Justin Theroux), ma ben presto la loro relazione clandestina (Nikki è sposata con un uomo facoltoso e possessivo) si confonde con la storia d’amore interpretata sul set, fino ad aprire nuovi, inesplicabili varchi su altri mondi. Nikki diventa Susan Blue, una donna dal vissuto problematico a causa del marito pericoloso, minacciata da un’entità metafisica (il Fantasma) che pare il burattinaio degli eventi. Unici confidenti un silenzioso uomo polacco, forse investigatore o forse burocrate, e un gruppo di amiche disinibite, su cui ombreggia un alone altrettanto astratto.
Tra una Los Angeles lercia e allucinata e una misera Polonia dei primi del Novecento, dove si intrecciano e si contaminano le afflizioni sentimentali e domestiche di Lost Girl e di Nikki/Susan, realtà e finzione sfumano, altre criptiche figure entrano in scena (tra cui i conigli umanizzati di una sit-com perturbante), misfatti e orrori si compiono, fino alla catarsi conclusiva, con la soppressione dell’alter ego in pericolo, Susan Blue, e un inaspettato happy end dove Lost Girl ritrova finalmente se stessa.
C’è metodo in questa follia
In questa matassa frastornante e oscura di fatti sordidi, personalità contorte e universi paralleli, David Lynch apre INLAND EMPIRE con il monito all’ascolto e alla visione, con un giradischi e uno schermo televisivo su cui Lost Girl osserva, in una sorta di autoanalisi, le disavventure di Nikki Grace/Susan Blue. Un monito speculare, chiastico rispetto al capolavoro precedente, Mulholland Drive (2001), che si apre con una scena di ballo e si chiude con un ordine al silenzio. Nel suo incipit, infatti, INLAND EMPIRE si sintonizza con un programma radiofonico del mar Baltico e mette in scena una spettatrice televisiva attenta e ricettiva, relegando in una lunga sequenza di titoli di coda una danza festosa e liberatoria, meno onirica di quella d’apertura di Mulholland Drive.
Pur perseguendo e intrecciando senza nessi logici più sentieri narrativi, nell’anticonvenzionalità drammaturgica propria del regista, INLAND EMPIRE si consegna, dopo più visioni, a una linearità di lettura meglio dipanabile di quella del film antecedente, a cui lo accomuna, oltre al fascino labirintico, all’immaginario sensuale e sconnesso e al titolo stesso di due realtà urbane di Los Angeles, una giovane protagonista in pericolo, il suo doppio, lo sfondo hollywoodiano, l’ambiente della macchina-cinema, il film nel film, la sovrapposizione di mondi angosciosi, inafferrabili, fagocitanti.
Tra catabasi e meditazione
Al nastro di Möbius che avvolge la struttura di Mulholland Drive, qui Lynch contrappone un’impalcatura classicistica di introduzione, sviluppo e risoluzione del conflitto, inoltrandoci però allo stesso tempo in una dimensione metacinematografica, in scatole cinesi, doppie cornici, biforcazioni che si contaminano a vicenda, soluzioni speculari non contigue, cortocircuiti temporali e spaziali, trovate surrealiste che guardano ad Edward Hopper e a Magritte.
Ma alla nostra dovuta visione meticolosa, cosciente e partecipe, di sui si fa allegoria Lost Girl, INLAND EMPIRE, dietro la forma ondivaga e disarmonica, dietro la sceneggiatura scritta durante le riprese per idee e intuizioni fulminee, si staglia come mastodontico percorso di maturazione, con Lost Girl che, grazie all’evoluzione di Nikki/Susan, si ricongiunge al marito e alla famiglia, riappropriandosi di sé e della felicità un tempo incrinata, dopo una discesa rivelatrice, tutta junghiana, nel proprio inconscio.
Citando le parole dello stesso Lynch, da tempo alfiere e promulgatore della meditazione trascendentale, dalla raccolta di interviste Perdersi è meraviglioso (minimum fax, 2017):
Quando trascendi sei oltre il pensiero, sperimenti la sorgente del pensiero, dell’universo, di tutto ciò che esiste. È questo il campo unificato: non è manifesto, è un nulla. Ma da esso ha origine tutto. […]. Sarà il campo unificato a fare tutto per te. Quando lo sperimenti, ti ci immergi, ci cresci dentro. Conosci te stesso.
Lo schermo onirico
Il cinema dunque, con un film che non s’ha da fare per una maledizione gravosa e quasi esoterica, con la confusione tra il piano della fiction e quello della realtà. Con la complessità che quest’ultima – quella di Nikki che si innamora del suo collega – è già infestata dal non-reale, come “frammento di psiche” che Lost Girl esteriorizza proiettandolo sullo schermo televisivo. Una connotazione della settima arte come dispositivo stratificato e introspettivo, non come mero sogno, ma come sogno potenziato, dove il binomio cinema-vita può essere affascinante quanto pericolosamente compromettente.
Il lato cinico e vizioso dell’industria hollywoodiana, che Mulholland Drive dispiega nella sua seconda, enigmatica parte, qui trova emblemi di correlazione oggettiva con le prostitute di notte sulla Walk of Fame e si trasmuta in una precisa scelta visiva, quella di girare in digitale INLAND EMPIRE. Adottando deformazioni ottiche nei primi piani, spericolate angolazioni antiestetiche, una fotografia nitida ma impura a ridotta definizione in DV (per uso di una cinepresa Sony semiprofessionale), David Lynch imbrattata il reale di mistero, irrisolutezza e perdizione e crea un aggancio perenne con i codici figurativi dell’incubo.
Fantasma-goria tra i classici
INLAND EMPIRE sembra inoltre pervaso da due film che hanno ispirato e plasmato l’intera produzione di Lynch e la sua poetica, Viale del tramonto (1950) e Il mago di Oz (1939). Se in particolare Mulholland Drive è stato letto come la versione lynchiana del capolavoro di Billy Wilder, Il mago di Oz, che pure si affaccia in alcuni scatti onirici di Mulholland Drive, viene citato sia in Velluto blu (la cantante Dorothy) sia nel finale di Cuore selvaggio come epitome del sogno che colonizza e trasfigura il reale nei labili confini dell’uno e dell’altro.
In INLAND EMPIRE basta un’inquadratura per evocare Viale del tramonto, noir melodrammatico di star decadute e fantasmi della celebrità che Lynch non può non contemplare per il suo film vampiresco e spettrale. Così un primo piano trasognato di Lost Girl è esattamente modellato su un primo piano di Gloria Swanson; o meglio, su un fotogramma del muto, incompiuto e maledetto Queen Kelly (1928) con la stessa diva, che Billy Wilder incastona con crudele sarcasmo in una scena di Viale del tramonto. In rima con il famigerato e interrotto film polacco che ombreggia sul set di “Il buio cielo del domani”, Lynch compone una piccola sinfonia intertestuale sulle ennesime illusioni e delusioni della Mecca del Cinema.
Gloria Swanson in “Queen Kelly” (1928)
La luce (accecante) oltre l’arcobaleno
Ancor più sistematica, invece, l’ascendenza del Mago di Oz, che qui ritorna con la tematica soggiacente del ritorno a casa (tanto ricorrente in certo cinema americano), dopo una disavventura tutto immaginata nella sintassi del sogno e anche del cinema che vive Dorothy (Judy Garland). L’approdo per Lost Girl è il ricongiungimento con il compagno a casa, per Dorothy quello nella sua fattoria nel Kansas.
Il mezzo di trasporto apparente era là un tornado che Dorothy osservava spaventata da una finestra che fungeva quasi da schermo filmico; qui è uno schermo televisivo sintonizzato con tutto ciò che INLAND EMPIRE ci racconta, nelle manovre metafisiche e mefistofeliche di quel demiurgo che è il Fantasma (non dissimile dal mago di Oz). Ancora una volta la vertigine di un prisma di riverberi, inventivo ed epifanico.
“Il mago di Oz” (1939)
Il terso cielo del femminino
Volti umani trasfigurati in clown grotteschi e famelici. Incursioni horror tra improvvise pulsioni di morte e omicidio. Intermezzi di danza oltre l’ordinario, dove la presenza umana scompare per un malevolo incanto. Conigli antropomorfi ingabbiati un una stanza con risate da sit com in differita. In una sala cinematografica la proiezione di un proprio sogno che fuoriesce dallo schermo (ma Buster Keaton e Woody Allen sono qui lontani). Primissimi piani impietosi, antidivistici, che Laura Dern regge con coraggio e complicità artistica. Ma, alla fine, un più coeso riequilibrio, la ricomposizione, la catarsi, con la risoluzione della tragedia virata verso il femminile.
E INLAND EMPIRE, nella sua orchestrazione di temi e motivi, in filigrana affonda il suo sguardo sulla resilienza delle donne, sul loro sodalizio e sulla loro ideale sorellanza, eludendo il rischio di manifesti programmatici e scivolamenti retorici. Sul corpo e sulla psiche femminile si innestano nel film i meccanismi di minaccia, prevaricazione e sopruso; le donne sono contese per gelosia e vendetta dai loro partner, le ombre della Fabbrica dei Sogni translitterano nei corpi esposti delle prostitute, il sentimento amoroso per l’altro non è ricambiato e si intrappola nella tossicità. A complemento si allega l’immagine dell’aborto, ricorrente nel cinema di Lynch fin dai tempi di Eraserhead.
Così nel ballo finale con le amiche David Lynch sancisce un happy end agguantabile solo attraverso il periplo interiore, le metamorfosi, gli sdoppiamenti, gli abbracci del suoi personaggi femminili. Il regista chiude in questo modo il cerchio sul suo “film-mandala” dove l’individuale si reintegra nell’universale, firma il suo alienante e aberrante 8 ½, il suo sovvertimento dei sensi e dell’intelletto per lo spettatore qui sradicato dalla comfort zone dei mass media dominanti.