Disponibile su MUBI Ginger & Rosa, lungometraggio del 2012 diretto da Sally Potter (Orlando, The Party), che riunisce un cast di prestigio (Elle Fanning, Timothy Spall, Annette Bening, Christina Hendricks, Alessandro Nivola) per captare, nel contorno di una crisi famigliare, un alone inedito e sinistro della Guerra fredda, quella della paranoia quotidiana, a dir poco prosaica, di fronte a un possibile attacco nucleare perennemente sbandierato e dibattuto, nella monotona Gran Bretagna del 1962.
Eludendo i sentieri già intrapresi dell’affresco storico e del dramma psicologico, la regista schiude uno scorcio d’epoca in un ventaglio di vibrazioni emotive, timori reconditi, speranze esili e angosce represse nelle cadenze del film di formazione, che è anche un ritratto adolescenziale al femminile e in punta di piedi, delicato, forse prevedibile, ma preciso e mai insincero.
Ritratto di fanciulle in fiamme
Ginger (Elle Fanning) e Rosa (Alice Englert), due liceali, sono amiche, complici, rivali. Dalle prime scorribande serali alle timide esperienze con i coetanei, si dipana un sodalizio segnato dalla responsabilità civile, dalla militanza politica antinucleare, ma anche dal naufragio degli affetti famigliari e dall’egoismo degli adulti. Sullo sfondo di un nucleo domestico patriarcale e di un elitarismo ideologico subdolo (il padre di Ginger è uno scrittore pacifista, immaturo e dongiovanni), la crescita di Ginger, assurta al rango di protagonista, si scontra con la propria autodeterminazione nel mondo, mentre la fobia progressiva del conflitto atomico si insinua come sintomo di un malessere più inconfessabile e intimistico.
Una cortina di fredda inquietudine
Ginger & Rosa, titolo di felliniana memoria, riecheggiando quel Ginger e Fred dove Marcello Mastroianni e Giulietta Masina, ballerini sul viale del tramonto, arrancavano con grazia démodé e dignità tenerissima in un microcosmo a loro estraneo, quello di un chiassoso e dozzinale programma televisivo; qui invece Sally Potter, sempre nel retrogusto agrodolce di uno scacco con il mondo, gira un racconto crudele (ma non disperato) della giovinezza, filtrando con destrezza millimetrica disagio sociale e problematiche storico-politiche nell’aderenza affettuosa e partecipe all’evoluzione di un’adolescente con le sue incertezze e paure, tra abbandono e incomprensione degli adulti e tradimento nell’amicizia (che Marguerite Yourcenar in Memorie di Adriano annovera tra i più forti dolori della vita).
Ma il finale è una lettera aperta nella catarsi della tragedia, che getta una luce di riscatto per tutti, rischiarando un film dai toni plumbei e sommessi, con uno slancio di maturità che si affranca dalla mera e dura esperienza e si radica invece nell’intelligenza delle emozioni.
Senza virtuosismo di sorta né quel raffinato touch con cui si era distinta in Orlando, Sally Potter si adagia sulle convenzioni del coming of age traendo però linfa vitale e bagliori di alterità dalla direzione della sua interprete e dalla tessitura di un’atmosfera d’epoca che scorre per corde rarefatte ma sapientemente evocative. Elle Fanning, qui quasi quindicenne, regge l’intero film con una matura fluttuazione di sguardi (acquosi, meravigliati e opachi) incede come effige preraffaelita in questo ritaglio di un’Inghilterra sbiadita, in una performance misurata ancora avulsa dai vezzi manieristici e dalle pose legnose di prove successivi.

L’affondo di una civiltà
Scriveva alla fine del XVIII secolo il politico francese Talleyrand:
chi non ha mai vissuto gli anni prima della Rivoluzione, non può capire cosa sia la dolcezza del vivere.
Sally Potter qui invece intercetta un paese prima della rivoluzione, prima della Swinging London e dintorni, senza preludi di cambiamento e aneliti ad ambizioni e sogni, seppur già insofferente, in una scala cromatica livida e mesta che traduce le ipocrisie degli uomini e la relegazione delle donne (la madre di Ginger, artista mancata negli obblighi casalinghi), in un’ambientazione disadorna e poco moderna, affollata da artisti e attivisti di pochi mezzi e sbiadito carisma, dove l’esistenzialismo e il femminismo di quegli anni sono miraggi culturali solo contemplati nei libri, dove la lettura di T. S. Eliot è allegoria di una nazione che è terra desolata.
Avulso dai Beatles e dal boom economico, in Ginger & Rosa si affaccia il mood di una civiltà di uomini a una dimensione (rievocando Herbert Marcuse), quello della noia e dell’apatia di una nuova e distorta società industrializzata, che Sally Potter pennella con ritmi meno romantici e patinati di An Education di Lone Scherfig con Carey Mulligan, calando con realismo di introspezione psicologica e qualche slancio languido un convulso e sottostimato riflesso della Guerra fredda, quello della paranoia quotidiana che si annida negli animi come un morbo, che radiografa e amplifica le frantumazioni dell’io.
Imperfetta sorellanza
Ricercando una lontana parentela in letteratura, Ginger & Rosa potrebbe riecheggiare Pastorale americana di Philip Roth, dove una famiglia potenzialmente ineccepibile veniva sconvolta dalla militanza infuocata anti-Vietnam della giovane figlia; ma il film di Sally Potter forse assomiglia solo a se stesso, come piccolo racconto di formazione dove, per una volta, la perdita dell’innocenza non intacca la protagonista, con una presa di posizione squisitamente femminile, componendo la storia di un’amicizia difettosa, contrastante, incerta, come la realtà dolorosamente esige. Ginger e Rosa, zenzero e rosa, vivacità e candore, in un plateale e inaspettato ossimoro tra nomi e rispettivi temperamenti. Ed è anche questa una delle sottili e defilate seduzioni del film.