CinemAmbiente omaggia Ovashvili. Intervista al regista di ‘Corn Island’
In occasione della proiezione del sempre attuale film del 2014 nell'ambito della 26esima edizione del festival torinese e della retrospettiva dedicatagli dal Museo del Cinema, abbiamo intervistato il regista georgiano parlando del suo cinema "da patriota", tra natura, guerra e politica
“La natura è un personaggio”. Niente di meglio di questa dichiarazione che ci rilascia uno dei più grandi cantori del cinema georgiano, George Ovashvili, per giustificarne la partecipazione da protagonista alla 26esima edizione del festival CinemAmbiente di Torino. Corn Island, del 2014, è il film prescelto dal festival fondato e diretto da Gaetano Capizzi per omaggiare l’autore. Paesaggi con figure è invece il nome della retrospettiva che il Museo del Cinema di Torino gli dedica subito dopo, dal 12 al 14 giugno.
In Corn Island, all’epoca vincitore al Festival di Karlovy Vary e candidato dalla Georgia agli Oscar, il paesaggioè quello di un isolotto in mezzo al fiume Enguri, al confine conteso tra Georgia e Abkhazia. Nel periodo caldo, qui, emergono strisce di terra prodotte dall’accumulo di limo, tanto fertili quanto effimere.
Le figure, invece, sono quelle di un vecchio e la sua giovane nipote: lui, vanga e zappa alla mano; lei, con la bambola sottobraccio (ma presto sarà donna). Sull’isolotto proveranno a coltivare il mais, prima che la natura torni a farsi sentire, riprendendosi la terra con le acque. Sulle rive, frotte di soldati si contendono pollici di terreno. Ma la vera lotta resta tra l’uomo e la natura.
Con azione da cartografi di cinematografie, abbiamo intervistato George Ovashvili perlustrandone l’intera produzione. L’isolotto da cui partire, quello che emerge, è proprio Corn Island, applaudito l’11 giugno nel programma sempre fertile di CinemAmbiente. Tutt’intorno, però, ci siamo mossi nel gioco di sponde degli altri lunghi che, insieme a una pioggia di corti, sono proposti nella retrospettiva Paesaggi con figure: The Other Bank (2009), Khibula (2017) e il più recente Beautiful Helen (2022). Una chiacchierata tra tematiche ambientali e cinema, nello spirito della kermesse torinese.
Il trailer di Corn Island
L’intervista a George Ovashvili
CORN ISLAND OGGI
Una classica domanda d’inizio intervista, specie se riferita a un film specifico, è come sia nato quel film. Questa volta, tuttavia, anche volendo concedermi banalità, non potrei: Corn Island, che il festival CinemAmbiente di Torino ripropone al pubblico, è un film del 2014. Penso comunque che i film abbiano qualcosa di biologico, come gli organismi: nascono, crescono, eventualmente invecchiano, o si rigenerano. Per Corn Island, sembra davvero sia giunto il momento di rigenerarsi, in tempi in cui si discute tanto di cambiamento climatico e del rapporto tra l’uomo e la natura. Cosa può raccontare questo film, oggi, allo spettatore contemporaneo, rispetto a quando è nato?
Hai ragione nel dire che il film è già abbastanza vecchio. Appartiene al passato, sì, ma è vecchio per me in quanto regista. Per il suo soggetto, invece, penso non sia cambiato nulla. Abbiamo ancora gli stessi problemi, non solo nel mio Paese, ma in generale. La storia di un uomo che cerca di crearsi una vita propria su di un’isola e di stare con la natura, di lottare con essa o di usarla come compagna per sopravvivere, non era la mia idea principale. Non ho pensato a questa natura e al soggetto umano fin dall’inizio. È qualcosa che si è sviluppato in seguito, durante il lavoro.
La mia idea principale, fin dall’inizio, era piuttosto quella di raccontare in generale la storia di un essere umano che cerca di sopravvivere in questo mondo. Naturalmente, in seguito ho capito che c’era, per me, un altro personaggio principale nel campo, nella narrazione: la natura, naturalmente.
E questa è la vita che stiamo vivendo in questo mondo. Non possiamo vivere senza la natura e dobbiamo in qualche modo trovare la giusta connessione con essa per sopravvivere. Perché la natura ci dà tutto. Ci dà la vita, ci dà il cibo, le bevande e l’aria: tutto ciò che serve per esistere. Ma allo stesso tempo, la natura ci chiede anche di restituire qualcosa. È questo il tipo di relazione tra uomo e natura che ho indagato nel film, e come ti dicevo, l’ho capito solo in corso d’opera. Oggi il problema è lo stesso di dieci anni fa, anzi, anche più urgente e globale.
SBAGLIANDO NON S’IMPARA
Nella lotta per la sopravvivenza dell’uomo, non c’è da tener conto solo della natura, bensì di un’insidia radicata nel mondo degli umani, anch’essa dolorosamente attuale: la guerra. C’è una scena significativa in tal senso in Corn Island, film in cui si vedono spesso i soldati impegnati nel conflitto tra Georgia e Abkhazia, regione proclamatasi indipendente nel 1992 con l’appoggio della Russia. La nipote e il nonno si sono da poco insediati su questa isoletta formatasi dopo le piogge battenti. La nipote chiede al nonno a chi appartenga quella terra; il nonno replica che è solo del Creatore. Credo che la prospettiva della grandezza, e se vogliamo, dell’indifferenza della natura, riporti la scala della guerra a qualcosa di piccolo, stupido, insignificante. Si può dire, allora, che Corn Island sia anche un film per guardare alla guerra da un’altra prospettiva?
Assolutamente. Stiamo creando da soli questi conflitti tra noi, tra gli umani. A volte penso proprio a quanto siamo stupidi, perché anche senza guerre abbiamo molti problemi e l’obiettivo principale della nostra esistenza è quello di sopravvivere su questo pianeta. Nei miei film, più che analizzare problemi cerco di sollevare domande: chi siamo, perché siamo qui, da dove veniamo e dove stiamo andando. Se confrontiamo l’idea fondamentale dell’esistenza dell’uomo sulla Terra e accanto ad essa poniamo questo tipo di conflitti umani, allora non possiamo fare a meno di pensare a quanto tutto ciò sia assurdo. Ci uccidiamo l’un l’altro e cerchiamo di accaparrarci una terra che in realtà non ci appartiene.
Corn Island, un’immagine dal film con nonna e nipote sull’isolotto nel fiume
È davvero buffo pensare che sulla Terra l’uomo vive da un tempo molto ridotto rispetto alla storia del pianeta. È surreale crearsi da soli problemi del tipo “questa è la mia terra e non la tua”. La mia intenzione era effettivamente quella di mostrare il tratto di assurdità dell’essere umano in questa storia. Quando vediamo ciò che la natura può fare e ci confrontiamo col suo potere, con le sue possibilità, ci rendiamo conto che le nostre piccole ambizioni non hanno senso. Eppure, l’essere umano, nella propria storia, è andato avanti in questo modo per tutto il tempo senza riuscire a imparare nulla fino ad oggi.
IL PATRIOTA
Ciò che è così interessante nel tuo cinema è che parliamo di esseri umani, quindi si approcciano questioni universali, ma allo stesso tempo è sempre in evidenza una forte identità nazionale, un legame col tuo Paese, la Georgia. Alla fine di The Other Bank, piccolo capolavoro del 2009 che la Georgia candidò agli Oscar, compare una scritta: “dedicato alla mia madrepatria”. Non è sempre così nella produzione artistica contemporanea. Per dire, vedo registi messicani o greci realizzare film che non hanno nulla a che fare con Messico o Grecia. Pensi si possa affermare che, in qualche modo, ogni tuo film sia “dedicato alla madrepatria”, pur mantenendo questa potenza comunicativa universale?
Sai, siamo un Paese molto piccolo. Abbiamo una popolazione di soli 3 milioni di abitanti. Ma allo stesso tempo abbiamo una storia molto antica. Una storia di oltre 3.500 anni. Naturalmente, non sto paragonando la Georgia con l’Italia, che ha una storia molto più grande. Ma resta il fatto che siamo molto piccoli e in qualche modo siamo molto più legati alla nostra terra d’origine perché – diciamo così, siamo in pochi. E diciamo che siamo quasi come un’unica famiglia. Ci conosciamo quasi tutti.
In Georgia, ovunque vada, incontro sempre qualcuno che conosco o che mi conosce. Oltre che antica, la nostra è una storia molto dura, una storia di guerre. Abbiamo subito invasioni da parte di molti paesi diversi: dai Persiani, dagli Ottomani, dai Mongoli, dagli Arabi e dai Russi. Tutti quelli che ci circondavano volevano solo avere questo bel pezzo di terra per mangiare. Ed è per questo che i Georgiani sono sempre stati in regime di guerra.
LE GUERRE GEORGIANE
La guerra, infatti, c’è spesso nei tuoi film, oltre che in Corn Island: la guerra civile di Khibula (2017), col Presidente che scappa dopo essere stato legittimamente eletto, o quella tra Georgia e Abkhazia che porta il ragazzino di The Other Bank ad affrontare un viaggio pericoloso per cercare suo padre.
Da noi diciamo: “i Georgiani hanno sempre dormito con le spade e coi cavalli”. Più tardi sono venuti i Russi e hanno occupato l’intero Paese. L’ultimo re georgiano chiese all’imperatore russo di essere protetto da loro perché eravamo della stessa religione cristiano-ortodossa. Fu firmato un accordo per proteggerci dalle invasioni persiane e ottomane, ma un anno dopo i Russi dissero: “non avete bisogno di questo Paese, fate parte della Russia e basta”. Così, siamo stati sotto la loro dominazione per 200 anni. Poi, sono arrivati i comunisti e in qualche modo siamo riusciti a ottenere la nostra indipendenza nel 1918, ma solo per 3 anni, perché dopo c’è stata una nuova invasione russa e la Georgia è stata occupata.
La tua trilogia The Other Bank – Corn Island – Khibula riguarda in particolare gli anni ’90.
Sì, ed era voluto. È stato un periodo molto difficile per le guerre con la Russia, la guerra civile e i conflitti etnici. Ho sempre cercato un modo per restare al fianco del mio Paese, e l’ho trovato nel cinema. Da quando ho iniziato a girare film, la mia idea principale è sempre stata quella di parlare in qualche modo del mio Paese, dei problemi che ha oggi o che ha dovuto affrontare nel corso della sua storia. La trilogia di cui parli è stata un modo per dire qualcosa sul mio dolore, del mio pensiero, della mia emozione, del mio legame con il Paese. Si è trattato di un tentativo, da parte mia, di dare un contributo: cosa posso fare per te, patria mia? Ho cercato di fare anche altre cose, ma il cinema è quello che mi riesce meglio.
L’UMANO AL PRIMO POSTO
In ragione di questo impegno, e del fatto che mi hai appena ricostruito una rapida cronistoria della Georgia, viene da domandarti se tu ti senta un regista politicamente impegnato. Non vorrei fuorviare gli spettatori: un’altra caratteristica del tuo cinema è che a dispetto del sottofondo socio-politico, è la profonda sensibilità poetica.
No, non sono propriamente un regista politicamente impegnato. Questo perché la mia idea principale resta quella di parlare dell’uomo. L’umano è sempre al primo posto, ma è naturale che ci siano anche delle istanze di tipo politico e sociale. Di questi tempi risulta davvero difficile descrivere la nostra situazione senza riferimenti politici. Se c’è un conflitto, bisogna mostrarlo, capisci? Penso però di riuscire a farlo dicendo cose che non sono mai state dette. Cerco di mantenere una distanza e di non diventare troppo soggettivo. Cerco di vedere gli eventi da lontano. Ecco perché non faccio un film direttamente sul tema, per quanto sia doloroso. Anzi, a volte aspetto prima di procedere a parlare di qualcosa che, diversamente, a caldo, potrei abbordare con troppo coinvolgimento.
Khibula, Hossein Mahjoub interpreta il presidente georgiano Zviad Gamsakhurdia in esilio forzato
I fatti di Khibula, per esempio, risalgono al 1991, ma il film è del 2017. Nel 1991 Zviad Gamsakhurdia fu democraticamente eletto presidente della Georgia, ma poco dopo fu spodestato da un colpo di stato e costretto alla fuga.
Questo è un caso emblematico del mio modo di procedere. Non sono mai stato un suo sostenitore, mai. Ma quando è stato ucciso, per me è stato davvero doloroso. Ed è per questo che ho aspettato, aspettato, aspettato. Sono dovuti passare quasi 15 anni prima che mi sentissi di parlare di questo argomento.
LA NATURA: BELLA CON L’ANIMA
Il Museo del Cinema di Torino ti dedica una retrospettiva coi film The Other Bank, Khibula e Beautiful Helen, il tuo ultimo lavoro. La rassegna s’intitola Paesaggio con figure. Titolo facile da comprendere per chi guardi i tuoi film. In Khibula, per esempio, il presidente fuggitivo si muove tra magnifici paesaggi, anche montani, ai quali getta spesso sguardi malinconici. Nel finale di The Other Bank, dal gruppo di uomini che il giovane protagonista incontra si leva un brindisi “alla foresta, ai fiumi e alle montagne”. La domanda è logica: perché è così importante il paesaggio nel tuo cinema?
Questione molto interessante per me. Il titolo della retrospettiva è indovinato perché ogni volta che faccio un film è proprio la natura uno dei personaggi principali. Si tratta di una natura sempre bellissima, ma allo stesso tempo pericolosa. La paragono a una donna molto bella. Nel film che sto iniziando ora, sarà ancora una volta la natura uno dei personaggi principali. Sento che essa è sempre con me, che ne faccio parte. Tutti noi veniamo dalla natura.
Ti parlavo poc’anzi di landscape, di paesaggio. Con un neologismo recente, in alcuni casi si parla di soundscape, ossia di paesaggio sonoro. È proprio quest’ultimo che mi colpisce particolarmente in Corn Island. I tuoi film, generalmente, sono contraddistinti da dialoghi rarefatti. In Corn Island questo tipo di sceneggiatura è portata all’estremo ed esaltata dalla progettazione del suono. Nei silenzi, tra musiche che affiorano come l’isolotto tra le acque su cui si insediano nonno e nipote, si percepiscono nitidamente il vento, la terra raschiata, l’acqua che gorgoglia. In che modo hai lavorato a questo ambiente cinematografico così immersivo?
Volevo che questa natura, quest’isola, il fiume e tutto ciò che la circondava fossero a loro volta un personaggio. Anzi: uno dei personaggi principali. Bisogna pur descrivere questo personaggio in qualche modo, non solo visivamente, ma anche con la sua anima, il suo suono e tutto il resto. Per questo abbiamo lavorato molto in questa direzione, per creare non solo un personaggio visivo, bensì un personaggio con la propria anima, i propri suoni, pensieri e tutto il resto. Ma è un’anima forte, e non è facile portarla sullo schermo. Non puoi lavorarci come fai con un personaggio normale, a cui impartisci delle indicazioni. È la natura: ha un’anima più forte. Questo è quanto abbiamo sentito mentre lavoravamo soprattutto a fare del fiume un personaggio.
LA LINGUA DEL CANTO
Parlando ancora dei suoni, questa volta vorrei concentrarmi su un tipo di suono particolare: i canti popolari. Non è un aspetto distintivo di Corn Island, ma in The Other Bank e Khibula risalta. Nel primo, ad esempio, connota in maniera decisiva la scena finale, che ovviamente non sveliamo. Nel secondo, si ripresenta spesso durante il viaggio del presidente in fuga, allorché s’improvvisano canti e balli. Perché quest’enfasi così insistita su canti popolari?
Fanno parte dei personaggi. Quando cerco di descriverli, cerco di apportare quanti più elementi posso alla descrizione. Non si tratta di musica cantata da cantanti o di danze ballate da ballerini. È un linguaggio che appartiene solo a loro. Mi aiuta a scavare dentro di loro e a creare un’identità di nazione, che va anche oltre la nazione: qualcosa che sia umano. Non sono solo le parole a costituirsi in un linguaggio. Tutto è linguaggio, anche quando semplicemente ci guardiamo tra di noi. Anche le nostre emozioni sul viso o il nostro movimento fisico o le canzoni scelte per una danza sono elementi di linguaggio.
George Ovashvili. Fonte immagine: ufficio stampa CinemAmbiente
Da georgiano, tutto questo è parte di me. In fin dei conti, sto descrivendo anche me stesso come parte della nazione. Mi sento non solo regista, ma anche spettatore, parte del pubblico. Non penso mai al motivo per cui sto usando una canzone o al motivo per cui la natura, ad esempio, abbia il suono del vento. Mi viene, semplicemente. Inutile metterlo in termini di critica cinematografica: l’importante è la sensazione generata.
IL MIGLIOR POSTO È TE STESSO
Allora te la senti di concordare col personaggio di Gabo, regista in crisi del tuo ultimo film, Beautiful Helen, quando dice che “ogni storia assomiglia al suo scrittore”?
Assolutamente sì. Stavo ragionando ancora sulla tua domanda, perché spesso ho risposto alla gente dicendo: “non sono io, è qualcosa che non so definire”, ma in verità non capivo che tutto viene, ovviamente, da te. E passo dopo passo l’ho compreso, sì, perché bisogna prendere tutto da qualche parte. E quel dove, il posto migliore, è te stesso. Sei tu che porti tutto questo, anche se non lo sai.
GIRAR CON UNA BAMBOLA
Abbiamo parlato di cose che affiorano dal fiume dell’anima del regista in maniera naturale. So che a volte i critici complicano l’interpretazione di alcune scelte di regia. Eppure, ci sono anche delle scelte più cerebrali, costruite, ricercate. Mi riferisco all’uso dei simboli. In Khibula, il presidente osserva un uccellino chiuso in gabbia: inevitabile il collegamento alla perdita della sua libertà, al suo esilio forzato. Nel finale del film si ferisce con un rasoio: quel sangue prefigura la sua morte. In Corn Island, torna sovente l’immagine di una bambola, che la nipote porta con sé. Che significato ha per te?
Come regista o semplice spettatore?
Perché, hai due risposte diverse a seconda del punto di vista?
In effetti sì. C’è una risposta per entrambe. Quando abbiamo usato la bambola, abbiamo pensato a cosa connotasse una bambina, perché avevamo bisogno di qualcosa che ci desse continuità con la vita dei protagonisti. Nella prima scena vediamo il nonno trovare un portasigarette (si tratta di oggetti portati dalla corrente del fiume nelle alluvioni periodiche dopo le grandi piogge, n.d.R.). Similmente, volevamo avere qualcosa che potesse essere il collegamento con la vita successiva sull’isolotto alla fine del film. Ci abbiamo pensato ed è venuto fuori che potesse essere la bambola. Molta gente l’ha notato, è vero, ma non ho mai voluto che fosse un simbolo. Direi, piuttosto, qualcosa che mi piacesse dal punto di vista visivo, della storia, delle emozioni.
Corn Island, Mariam Buturishvili in una scena del film con una bambola
È indicativo di come lavori? Di istinto, oltre che di razionalità?
Non lavoro quasi mai in modo razionale, il che forse a volte non va bene. Preferisco seguire il mio impulso, la mia intuizione. Agisco direttamente sugli elementi visivi. Ne prendo uno e inizio a svilupparlo. La bambola non è solo un residuo della vita precedente, ma ha una sua linea nella storia, che si crea passo dopo passo, scrivendo la sceneggiatura, sedimentando significati. Non abbiamo semplicemente portato la bambola e detto: “ok, questo è un buon simbolo, è quello che ci serve“.
OCCHI DI RAGAZZO
La ragazza di cui stiamo parlando è protagonista di Corn Island, insieme al nonno. In The Other Bank, protagonista è un bambino che cerca il padre nei territori di guerra. La protagonista di Beautiful Helen è una giovane di venticinque anni che torna a Tbilisi dopo un’esperienza a New York. Quanto a Khibula, nella prima casa in cui il presidente fuggitivo viene ospitato, ad accoglierlo, insieme al padre, c’è una timida ventenne, a cui l’anziano presidente penserà con curiosità e turbamento. Guardando tutti i tuoi film, una delle domande che ho sentito proferire più spesso è: “quanti anni hai?”. Ho come la sensazione che tu abbia un’attenzione particolare ai giovani. C’è forse un afflato particolare nel volerti rivolgere a loro, nel fare un cinema che si indirizzi alle giovani generazioni?
Sicuramente, perché prima di tutto mi sento sempre un bambino. Prendo tutto quello che ho dalla mia infanzia. In qualche modo ho questo forte legame con la gioventù. Non so se sia un bene o un male, ma sono ancora lì, in quel mondo. Ecco perché cerco le mie cose lì e tento di usarle per raccontare ciò che non ho potuto raccontare quando ero giovani. Sento come se avessi perso qualcosa da bambino. Non ho ottenuto tutto quello che volevo ottenere. Sto cercando di dire o fare ciò che mi manca. Questa connessione mi aiuta molto. Mi aiuta davvero a stare coi giovani, perché sono sinceramente contento quando mi capiscono meglio delle altre persone. Credo di sentire loro e che loro sentano me, il che è molto importante per lavorare insieme.
Per me è stato un grande piacere lavorare con il bambino di The Other Bank(Tedo Bekhauri, n.d.R.) o con la ragazza di Corn Island (Mariam Buturishvili, n.d.R.). E posso solo aggiungere che nel mio prossimo film, ora in preparazione, il protagonista è di nuovo un ragazzo di 12 anni insieme a una ragazza tredicenne. Questo vuol dire che quella ricerca di cui ti parlavo è ancora in corso. Sto cercando di dire qualcosa che non ho detto nei miei film precedenti. Ma non ci sto provando in modo razionale. Non è frutto di un pensiero deliberato.
RICOMINCIO DA HELEN
Tra qualche istante ti chiederò proprio del tuo prossimo progetto. Per farlo, però, mi manca un anello di congiunzione: il tuo ultimo film, Beautiful Helen, peraltro presentato anche al Trieste Film Festival nel 2023. Mi hai parlato dei tre film precedenti come di una trilogia. In effetti, Beautiful Helen è una storia per larghi tratti diversa. La protagonista venticinquenne che ritorna a Tbilisi incontra un regista in crisi sia creativa che personale. Ne nasce una complicità e un appassionante racconto meta-cinematografico. Questo aspetto concettuale non era presente nei tre film precedenti.
È vero: si è trattato di un approccio completamente diverso da parte mia alla regia. Non dico che sia qualcosa di nuovo in generale, ma per me è stato nuovo. C’è stato un momento della mia vita in cui ho sentito che in qualche modo non volevo più dire nulla. A volte capita, nella vita, di sentire che ci si fermi. Allora mi sono detto: “ok, ho due opzioni: o mi fermo e lascio tutto, o ricomincio dall’inizio, come uno studente del primo anno”. Non avevo soldi, non sapevo cosa fare.
Beautiful Helen, un’immagine dal film con la protagonista interpretata da Natia Chikviladze per le strade di Tbilisi
Come sai, nei miei film non ci sono molti dialoghi. Il modo più semplice di procedere era quello di prendere due persone e metterle sedute a parlare. Ho scritto la sceneggiatura e poi ho invitato dei giovani intorno a me, professionisti o principianti che volevano provare a fare cinema. Con questa troupe siamo riusciti in qualche modo a girare il film. Alla fine, comunque, non credo che sia il mio modo di fare cinema.
QUELLI CHE S’INDUSTRIANO PER IL CINEMA GEORGIANO
Proprio in uno dei dialoghi di Beautiful Helen, Anna, amica della protagonista ed ex attrice, dice testualmente che “il Paese non è più interessato al cinema o al teatro”. È qualcosa che pensi rispecchi effettivamente la situazione attuale della Georgia?
Sì, purtroppo sì. Questo è un grosso problema. E sento che ora non stiamo andando nella direzione giusta, perché in qualche modo abbiamo perso il nostro posto nell’industria cinematografica internazionale. C’è stato un tempo, circa sei, sette anni fa, o poco più, in cui i film georgiani erano molto apprezzati ovunque, a livello internazionale. Già in quel periodo dicevo che in qualche modo avremmo dovuto lottare per mantenere quel momento magico, perché se guadagnarsi l’attenzione è difficile, mantenerla viva lo è ancora di più.
Cosa pensi che abbia affossato l’industria cinematografica?
Il problema principale credo sia stato che all’epoca nessun governo in Georgia voleva avere il cinema georgiano come uno degli strumenti principali o uno dei modi principali per portare il Paese al di fuori della Georgia. Il cinema ha un grande potenziale, un grande potere: è il modo più breve per trasmettere il proprio messaggio al grande pubblico, se lo si fa nel modo giusto. La mia sensazione è al giorno d’oggi nessuno sia interessato al cinema georgiano nel Paese. Solo io e qualcuno della nuova generazione stiamo lottando per fare qualcosa, ma siamo soli. Non è che non facciamo parte dell’industria cinematografica georgiana: è semplicemente che quell’industria non esiste più.
IL FILM DELLA VITA
Allora, qual è la vostra prossima battaglia cinematografica? Qual è il tuo prossimo film? è tanto più interessante saperlo visto l’esperimento precedente di Beautiful Helen.
A modo suo, Beautiful Helen mi ha davvero aiutato ad arrivare a questo progetto, che secondo me sarà il film principale della mia vita. Almeno questa è la mia sensazione attuale. Si tratta di un film molto visivo, di nuovo con pochi dialoghi. Il titolo è The Moon is a Father of Mine. Siamo riusciti a creare una grande coproduzione intorno a questo progetto, e ora siamo coinvolti in sette diversi paesi europei, più la Georgia. Ci sto lavorando proprio ora. Abbiamo un periodo di pre-produzione e vorrei girarlo a novembre- dicembre. È una storia sul rapporto tra padre e figlio. È una storia che viene dalla mia infanzia e dai miei ricordi. Uno dei personaggi principali è un bambino, e suo padre si ispira a mio zio. Potrei aggiungere qualche altro dettaglio, ma penso sia meglio prima fare e poi parlare.
Se questo è il film della tua vita, spero di rivederti per un’altra intervista.
Sì, speriamo di poterla fare, magari tra un anno.
Taxi Drivers è media partner della 26esima edizione di CinemAmbiente.