La regista e sceneggiatrice francese Justine Triet, classe 1978, ha portato a Cannes in competizione il suo quarto lungometraggio, Anatomia di una caduta, (ed il terzo presentato a Cannes, dopo Victoria alla Semaine de la Critique en 2016 et Sybil in concorso nel 2019).
Il film, vincitore del premio Oscar 2024 per la sceneggiatura originale, è in streaming su MUBI.
E’ subito evidente, fin dalle prime scene del film, nel prologo della vicenda noir che porterà la protagonista al processo, l’evoluzione professionale ed estetica della Triet, che miscela con sapienza inquadrature sinistre del luogo dove avvengono i fatti (lo chalet di montagna dove vive la famiglia dei protagonisti, una coppia con un figlio) e rilassati momenti di vita quotidiana – come l’intervista rilasciata dalla protagonista a una giovane ricercatrice – al fine di distogliere l’attenzione dello spettatore dai fatti salienti. Più tardi verrà ritrovato vicino alla casa il corpo senza vita del marito/padre, precipitato dal tetto dello chalet: starà alla corte appurare se la caduta sia dolosa, casuale o autoinflitta. L’anatomia della caduta, svolta come nei veri thriller in maniera rigorosa e scientifica è l’occasione per una dissezione della vita di coppia dei due coniugi, che si rimpallano (in alcune registrazioni usate nel processo) colpe, errori passati, responsabilità nelle scelte, fra verità, bugie, egoismi ed omissioni.
Un film da non perdere per il rigore della sceneggiatura – scritta a quattro mani dalla Triet con Arthur Harari, suo coautore e compagno nella vita – e per il ritmo incalzante che, al di là dell’idea delle sembianze ‘thriller’ (che pure mantiene la tensione del pubblico per 151′), vuole essere più vicino al Bergman di Scene da un matrimonio, che non ai classici film sui processi realizzati in America, come ha tenuto a precisare la stessa regista.
Anatomia di una caduta: discesa agli inferi per madre e figlio
Anatomie appartiene di fatto al genere ‘giudiziario’, poiché si dipana intorno a un cadavere (di cui accertare la natura della morte), a un processo, con avvocati difensori e pubblici ministeri, alla messa in campo di prove e testimoni ma, al tempo stesso, siamo di fronte a un’opera dal forte portato psicologico, che mentre indaga sull’eventuale crimine, s’insinua a poco a poco nelle vite dei protagonisti, esplorando i rapporti di forza (paritari o squilibrati) delle relazioni tra partner che si estendono anche alle dinamiche col figlio all’interno della famiglia.
Sandra, Samuel e il loro figlio di 11 anni Daniel – ipovedente a causa di un incidente in cui il padre ha avuto (e sente di aver avuto) una buona parte di responsabilità – vivono da un anno lontano da tutto in uno chalet di montagna. Sandra è traduttrice e ha appena scritto un libro che ha avuto buone critiche, il marito Samuel ha abbandonato la carriera di professore perché cerca da anni di scrivere un libro senza successo e sente che il tempo gli sfugge tra le dita, avendo anche deciso di istruire in casa il figlio David.
Dal giorno in cui il cadavere di Samuel viene ritrovato, sarà come una discesa agli inferi per i due superstiti, soprattutto per Sandra (nel ruolo una bravissima Sandra Hüller, che recita in due film in concorso e potrebbe essere in odore di Palma come miglior attrice almeno in uno dei due), la quale, fortemente sospettata di omicidio, dopo aver chiamato un fidato amico avvocato (Swann Arlaud), vedrà dissezionata e messa alla sbarra la propria vita privata, familiare, sessuale, di coppia, con tanto di litigi registrati e fatti ascoltare in aula. Tutto questo con il bambino presente cui la polizia assegna un’assistente sociale fissa in casa per controllare che, in quanto potenziale testimone, non venga influenzato dalla madre. Ma Daniel, pur nella sofferenza e nella confusione derivanti da eventi così traumatici, risulterà decisivo nella soluzione del caso.
Manipolazione e distorsione delle nostre vite
La regista ha affermato di voler fare un film sulle relazioni di coppia, e Anatomie d’une chute lo conferma pienamente: le rivalità sottese, le frustrazioni di ciascuno, il desiderio per due personalità forti di mantenere la propria indipendenza, i piccoli egoismi nella gestione del tempo della vita dedicato alle mansioni familiari. Tutto può diventare una prova schiacciante di colpevolezza, anche una innocente intervista davanti a un bicchiere di vino con una giovane studentessa, ed essere usato contro la principale indiziata, soprattutto nelle abili mani di un procuratore che manipola ogni dettaglio per cercare di chiudere il caso.
“L’aula di un Tribunale è un luogo dove viene riformulato quello che diciamo – afferma la regista – le nostre vite non ci appartengono più: le cose che facciamo, le scelte prese, sono ingigantite a tal punto che tutto assume un significato diverso, tutto viene distorto. Questo è uno dei focus del film. L’altro parte da un’esperienza della mia stessa vita di coppia, riguardo al modo in cui tutto ciò che avviene nelle singole vite dei partner influenza l’intera relazione e interagisce con la vita in comune. Volevo parlare di cosa significa vivere con qualcuno, cercando l’uguaglianza nella relazione, ma anche di quanto tale progetto di parità sia quasi impossibile da realizzare”.
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