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Line (Torino Film Festival)

“Perchè bevi? Cosa devi dimenticare, papà?” “Non lo so, cosa devo dimenticare, non lo so”. Il padre di Tadasuke è un alcolizzato, lo è diventato dopo essere stato aggredito e picchiato, dopo aver perso conoscenza per tre giorni e parzialmente la memoria. Ora vive con il figlio che lo filma nelle sue stralunate bevute in squallidi bar giapponesi, nell’ancor più squallida Taisho-ku, città nella prefettura di Osaka.

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“Perchè bevi? Cosa devi dimenticare, papà?” “Non lo so, cosa devo dimenticare, non lo so”. Il padre di Tadasuke è un alcolizzato, lo è diventato dopo essere stato aggredito e picchiato, dopo aver perso conoscenza per tre giorni e parzialmente la memoria. Ora vive con il figlio che lo filma nelle sue stralunate bevute in squallidi bar giapponesi, nell’ancor più squallida Taisho-ku, città nella prefettura di Osaka. Un luogo abitato prevalentemente da persone provenienti dalla vicina – e odiata dal protagonista – Okinawa. E’ il respiro affannato di un padre sconfitto a far da colonna sonora a “Line” (2008) di Tadasuke Kotani (1977), talentuoso filmaker indipendente.

Il protagonista è fidanzato con una ragazza-madre, e vive combattuto tra i problemi del padre e la crescita del bambino. Decide così di partire per Okinawa, l’odiata Okinawa, per trovare la radice della sua inquietudine: sarà un viaggio attraverso la carne delle prostitute che Tadasuke filmerà, prostitute piene di cicatrici, di difetti, di tatuaggi: dolci creature sconfitte. Come il protagonista, e come suo padre. Donne che Tadasuke filma come fossero creature mitologiche, o cartine geografiche dell’amore perduto. Nel frattempo il padre, rimasto solo a Taisho-ku, gioca a baseball con il piccolo, lo aiuta a fare i compiti, sostituisce all’alcool l’affetto per il bambino. Ma saranno le cicatrici a cambiare il destino della strana famiglia.

“Mentre guardavo le cicatrici sui corpi delle prostitute, stavo in realtà guardando la cicatrice nella mia anima, alla ricerca dei ricordi della mia infanzia perduta e sperando di trovare una strada verso il futuro. Sono così riuscito ad accettare me stesso e mio padre per quello che eravamo. Mi sono sentito come se avessi trovato un bambino perduto (me stesso), accettando nello stesso tempo il figlio della mia ragazza”.

Gaetano Veninata


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