Sfocato ma col fuoco dentro. Aftersun, impressionante debutto della cineasta scozzese Charlotte Wells, suona come un malinconico pezzo di dream pop dalle melodie sfrangiate; si guarda come una polaroid un po’ scolorita. Dettagli incerti, impatto sicuro. E numeri fenomenali: da Cannes a Toronto, passando per Alice nella città, è ora disponibile su MUBI (e in sale selezionate), dopo oltre 40 premi e quasi 100 candidature.
Ma a essere straordinaria è una storia ordinaria: la vacanza in Turchia negli anni ’90 di una ragazza undicenne col padre tenero ma tormentato. Lei, che ora ha più o meno l’età che il genitore aveva quell’anno, riguarda il filmino di viaggio e trascina lo spettatore nel viaggio della memoria. Senza troppo dire: per impressioni in 35mm, per ricordi che sfumano riavvolti su VHS. Tra una nuotata, un karaoke, i primi baci ed un gelato, si avvia, elusivo e irresistibile, allo scioglimento. Dove, più che picchi emotivi, raggiunge le profondità dell’animo. Un commovente capolavoro di sfumature su ciò che resta di quanto abbiamo vissuto e sull’ostinazione di guardare, riguardare, ricordare.
Il trailer
La trama
Quando Sophie (Frankie Corio) pensa a suo padre, le viene in mente la vacanza in Turchia che vissero insieme negli anni ’90. Lui, Calum (Paul Mescal), era poco più che trentenne, l’età che adesso ha Sophie. Lei, allora, compiva 11 anni. Forse dopo quel viaggio è successo qualcosa e non si sono più visti; forse la bambina capiva già a quel tempo che il padre, nonostante facesse ogni sforzo per nasconderlo, era in profonda sofferenza. Il ricordo, già vivo, si rianima quando la donna riguarda il filmino di quell’esperienza: i giochi nell’hotel, le serate nel villaggio vacanze, le mattinate distesi a bordo piscina. Dove non arriva la macchina da presa, completa il ricordo: un’incomprensione col genitore, i piccoli gesti di affetto, il primo bacio. Sophie guarda e cerca di comprendere ciò che, undicenne, non aveva potuto ancora capire.
Camera senza vista
Sfumato, sfocato, Aftersunlo è sin dall’inizio. Nel prologo, sul campo nero che ospita i titoli, c’è già il brusio della telecamerina con cui Sophie riprenderà e verrà ripresa dal padre. Subito dopo, il genitore compare dal balcone, a media distanza, bruciato dalla luce, nei movimenti incerti con cui la ragazza lo inquadra. E poi, a seguire, ancora Sophie, ma cresciuta, mentre balla in discoteca, sotto le luci intermittenti che dai colori aggressivi scivolano bruscamente agli spazi neri. Questo è Aftersun: un ricordare lasciando spazi neri, accendendo luci delicate, perché le verità intuite non abbaglino e facciano male. Quasi servisse una lozione per non scottarsi alla luce del ricordo, la “camera della mente” di Charlotte Wells impone alla sua protagonista un “ricordo col filtro“: obliquo, indiretto, frammentario. La macchina da presa si decentra costantemente: troppo alta, troppo bassa; troppo a destra, troppo a sinistra. Corpi tagliati o riflessi tra acque e vetrate. Qualcosa, insomma, deve sfuggire.
Effetto notte
E sfugge anche il montaggio. Strategia di narrazione ripetuta in Aftersun è quella di lasciare in sospeso alcune scene in cui la figlia interroga il padre. Sospensione vera, con qualche secondo di stasi, senza la cesura netta dello stacco: il padre non dice, quasi proteggendo l’infanzia dalla vita bugiarda degli adulti. Ma su quel non detto, la regista indugia. Così, a Sophie tocca muoversi tra focalizzazione e dissolvenza: anche quando, grazie alle vecchie riprese, recupera le immagini, serve un lavoro ulteriore della mente per completare il quadro, per capire. Guardare è un atto di ostinazione; c’è una mind camera che non smette mai di ronzare. Come scrisse quel poeta britannico della canzone : there is a light that nevers goes out. Quando Sophie chiede al padre cosa avesse fatto da bambino per il suo undicesimo compleanno, questi gli chiede di spegnere la telecamerina, che capisce essere ancora accesa per la presenza della piccola luce rossa. La ragazza risponde:
Papà… okay, non sta riprendendo. Lo registrerò soltanto nella mia piccola… camera della mente.
Così, il cinema della Wells, come la pellicola dei ricordi di Sophie, costruisce e decostruisce; mette a fuoco o si spegne; è, insieme, effetto giorno ed effetto notte.
Della morte, dell’amore
In questa tensione tra la messa a fuoco e la messa a silenzio, Aftersunvive anche di un’altra frizione interna.
Da un lato, c’è la liturgia dell’amore nei suoi piccoli gesti protettivi: il padre rimuove le scarpe alla figlia che si è addormentata sul letto; le rimbocca le lenzuola – ma poi sarà la figlia, una notte, a rimboccarle a lui; le spalma la crema solare – ma poi sarà la figlia, un giorno, a spalmargli sulla schiena i fanghi termali.
Aftersun, Sophie e il padre in un momento di tenerezza
Dall’altro, invece, c’è la profezia di morte, di annullamento, la pulsione a dissolversi: Calum attraversa la strada disinteressandosi di un autobus che quasi lo investe; si fa inghiottire dalle profondità delle acque o s’innalza, da equilibrista, sulla ringhiera del balcone; in una bottega locale, si appoggia ai tappeti come sprofondato in un sonno irreversibile, salvo riaversi quando sopraggiunge il negoziante per portare la fattura. Tutto ciò avviene nell’allegria un po’ posticcia del villaggio vacanze, con la sensazione di essere fuori dal tempo, o dall’immagine-tempo. Insistendo, tra l’altro, sui bollori degli adolescenti, che Sophie guarda con curiosità. Qui, un effetto poetico inenarrabile: l’occhio di Sophie undicenne si posa contemporaneamente sui corpi che sbocciano, che si baciano, che si sfiorano, mentre il padre, per qualche oscura inquietudine, sembra sfiorire.
Blur e altre cose britanniche
Questo effetto blur (per restare in tema British), di racconto ellittico e di immagine che si recupera e che si perde, ha fatto apprezzare Aftersundi Charlotte Wells così come di recente è accaduto al racconto laconico e sentito di un’altra regista britannica, l’inglese Joanna Hogg. Ai suoi ultimi film è toccata spesso la stessa sorte che è poi stata di Aftersun, vale a dire la vertigine di primi posti nelle classifiche della critica internazionale – specie quella ultra-British di Sight & Sound. E non sarà per casuali assonanze, a proposito della narrazione dei ricordi, che quelle opere della Hogg si chiamassero The Souvenir(2019), The Souvenir: Part II(2021), The Eternal Daughter (2022): titoli che funzionerebbero quasi da tag del paziente cinema di sfumati e sfumature di Charlotte Wells.
L’orizzonte basso di Charlotte Wells
Anche stanziandosi a New York, Charlotte Wells non avrà assorbito, dunque, certo americanismo chiassoso d’oltreoceano. Nel 2022, mentre Aftersunlavorava sullo smorzamento dei toni, in tanti si spellavano le mani per l’ultimo film di Steven Spielberg. Curiose – ma illuminanti, per contrasto – le convergenze tra The Fabelmans e il film della Wells. In entrambe, l’aspetto meta-cinematografico emerge per forza di cose tra film e filmini di famiglia; entrambe presentano un fondo biografico; in tutti e due è decisivo il rapporto genitori-figli. Eppure, con The Fabelmans, Spielberg sembra non poter fare a meno di trasformare il proprio diario familiare in una epopea alla John Ford, che celebra la propria conquista del cinematografo come conquista di una frontiera mitica. Un discutibile effetto di magniloquenza che stride con l’intimità del racconto di famiglia.
Aftersun, fotogramma con effetto polaroid
Sarà questione di gusti, ma in confronto rifulge molto di più Aftersunnell’orizzonte basso del proprio tono raccolto. Non è (il solito) cinema classico, non necessita di mostrare tutto: Charlotte Wells afferma un memorabile cinema della negazione. Un cinema, cioè, che accetta di sbiadirsi come una vecchia fotografia; che non ha bisogno di urlare, ma che può anche tacere o parlare sottovoce. Dissolversi e ricomporsi. Come fanno i ricordi. E questo sì che è un cinema che si fa ricordare.
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