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Interviews

‘El caso Padilla’, come “castrare” le idee a un poeta. Intervista a Pavel Giroud

Uno dei titoli da recuperare dalla Festa del Cinema di Roma. Nella Cuba post-rivoluzione di Fidel Castro, Heberto Padilla viene imprigionato per le sue critiche al governo. Con il rarissimo filmato della sua finta abiura, Pavel Giroud ricava un documentario scottante e drammatico

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Padilla in atteggiamento di sfida

Padilla è un caso: letterario, storico, politico. Adesso, anche cinematografico. Al Festival di San Sebastián prima, alla Festa del Cinema di Roma poi, El caso Padilla di Pavel Giroud si è distinto come documentario storico di urgente attualità e forte impatto drammatico. Per chi abbia avuto occhio a riconoscere questo gioiellino. Il film ricostruisce una vicenda non del tutto nota in Europa, vale a dire quella dello scrittore cubano Heberto Padilla e delle sue traversie politiche vissute a Cuba, tra gli anni ’60 e ’70, per un peccato definibile di lesa maestà: aver messo in discussione alcuni aspetti della rivoluzione cubana. Uomo di poca fede. O solo libero. Ma a metà: perché dopo il carcere, abiura. Un operatore dell’epoca riprende la sua recita di fronte all’associazione degli scrittori cubani, vigilati anche da qualche soldato in divisa.

Giroud, regista cubano di stanza a Madrid, prende in mano il materiale inedito, lo manipola per renderlo più vero (e digeribile, rispetto alle tre ore di filmato originale). Padilla diventa un magnifico Amleto cubano – essere o non essere a favore della rivoluzione? – che s’inzuppa di sudore tra le sudate carte per diventare un rinnegato da Oscar: ha sbagliato, dice. E viva la rivoluzione. Ma nel montaggio di Giroud, anche acute note di contesto e interventi di altre voci fuori dal coro – da García Márquez a Fuentes, fino a Sartre e Cortázar – che innescano una profonda riflessione sul ruolo degli intellettuali tra limiti, responsabilità e libertà creativa. Di tutto questo abbiamo parlato in un’approfondita conversazione col regista.

Il trailer

Qui la recensione di Roberto Baldassarre.

L’intervista: Pavel Giroud racconta El caso Padilla

ANTONIO MAIORINO: Mi piace spesso ricordare una regista argentina premiata alla Berlinale, Clarisa Navas, che in un’intervista mi disse: “il cinema è una promessa d’incontro”. Ti chiedo di spiegare cosa prometta l’incipit del film El caso Padilla, che si apre con questi versi dell’autore tratti da Poética (Fuera de Juego, 1968): “Dì la verità/Dì, almeno, la tua verità./E poi/lascia che succeda qualsiasi cosa:/che ti strappino la pagina preferita,/che ti abbattano la porta a colpi di pietra,/che la gente/si accalchi davanti al tuo corpo/come se tu fossi/un prodigio o un morto”.

PAVEL GIROUD: Dire la verità, almeno la mia verità, è quello che io stesso ho fatto con questo film. El caso Padilla era tutto nelle mie mani in quanto regista, eppure proprio questo è il film in cui ho cercato di esser meno presente. E penso di esserci riuscito. Il mio è stato un autentico esercizio in questa direzione, al punto che alcune recensioni in Italia me l’hanno fatto notare, osservando come, a loro dire, io non esprimessi mai una visione mia su quanto successo, limitandomi piuttosto a mostrarlo. È così: è ciò che volevo.

Io non possiedo la verità. Mi sono limitato a ripulire il materiale per renderlo comprensibile al pubblico per il quale il caso Padilla era un fatto totalmente estraneo. Ci sono personalità, istituzioni, case editrici citate da Padilla che fanno parte della sua esperienza quotidiana. Per chi non le conosce, è faticoso seguire il discorso di Padilla. Spettava dunque a me organizzare il racconto nel modo più neutro possibile affinché lo spettatore si potesse confrontare con quanto accaduto e si potesse fare un’idea del perché quest’uomo fosse seduto lì a tenere il proprio discorso.

Perché era proprio questo il tempo opportuno per raccontare il caso Padilla girandoci un film?

La ragione per cui questo fosse il momento giusto per il film ha a che fare principalmente con la valutazione che ho fatto del materiale a mia disposizione. Mi sono interrogato su questo, se fosse più prudente lanciarlo tale e quale o farci un film. Il fatto, poi, che il materiale compiesse 50 anni, ha portato a una riflessione congiunta col produttore sulla maggiore libertà dal punto di vista legale di farne uso. Infine, c’è una causa occasionale. Nel corso della pandemia ho finalmente avuto più tempo per dedicarmi a El caso Padilla e pensare a come potessi organizzarlo. Ed è quello che ho fatto.

Dicevi della ricerca di un modo “neutro” di raccontare la vicenda di Heberto Padilla. Problema doppio: da documentarista, e da autore di un documentario che risulta anche politico. Ti sei sempre mantenuto fedele a questa auspicata imparzialità o ci sono stati dei momenti in cui è stata più forte un’inevitabile forma di solidarietà dell’artista (il cineasta) verso l’altro artista (il poeta)?

C’è un momento nel film che è più direttamente nelle mie mani in quanto cineasta, vale a dire quello in cui c’è il montaggio con gli stralci d’intervista a Gabriel García Márquez e Julio Cortàzar che parlano del ruolo dell’intellettuale nel proprio contesto. È stato difficile, ma allo stesso tempo non impossibile, perché la mia attitudine è sempre quella di regista e sceneggiatore. Un regista, uno sceneggiatore, devono in qualche modo amare tutti i propri personaggi nel bene e nel male, e metterli tutti sullo stesso piano. Così, ne El caso Padilla, i vari Fidel Castro, Padilla, García Márquez e gli altri, fanno tutti parti della mia trama drammatica. Dovevo dare voce a ognuno di loro.

Fidel Castro

Ne El caso Padilla Fidel Castro compare più volte da filmati d’epoca

È stato un esercizio documentario, ma anche di finzione. In altre parole, ho fatto lo sforzo di astrarmi dal film per vedere ognuna di queste persone come personaggi di un film. Focalizzandomi su di loro come regista, mi è stato facile giudicare che ruolo avessero nella narrazione.

Detta così, sembra un’operazione quasi “asettica”. Eppure il film trasuda un certo pathos

A livello emozionale, quando ho visto per la prima volta il montaggio iniziale del film, molto diverso da quello di oggi, ho pianto. Ho pianto come se fossi stato io Padilla. Mi sono chiesto, se mi fossi prestato a fare quello che ha fatto Padilla e a tenere quel discorso, come mi sarei sentito al posto suo? A livello pratico, dunque, ho praticato una focalizzazione zero, lavorando da regista puro; ma a livello emozionale, bisognava fare qualche concessione e lasciare spazio ai personaggi. Talvolta, nel processo di creazione cinematografica, commettiamo l’errore di emettere giudizi. A me spetta invece mostrare i fatti affinché chi legga, chi veda, chi ascolti, sappia di trovarsi di fronte alla confessione di Padilla. Alla confessione sua, e basta.

Dalle tue parole emerge tutta la delicatezza del compito che ti sei prefissato. In cosa, dopo aver recuperato questo materiale filmato, hai sentito di dover essere particolarmente cauto? Il racconto poteva mutare in un’occasione sprecata. Quali cattive decisioni hai sistematicamente evitato?

Mi piace moltissimo questa domanda, sei l’unico ad avermela fatta. Si tratta di un aspetto molto importante del mio processo creativo. Il materiale che ho avuto a disposizione dura tre ore. È noioso. Padilla si ripete spesso, parla delle stesse cose più e più volte. Da un lato, questo è negativo, ma dall’altro diventava positivo perché mi consentiva di avere varie riprese sullo stesso tema di cui Padilla argomenta in momenti diversi. In fase di montaggio ho dunque potuto fare un lavoro di condensazione mettendo insieme le varie inquadrature e completando, così, quello che nel materiale originario era sparso in parti diverse.

Ciò che mi sono proposto di evitare – e che è stato un problema nel primo editing del film – è che il linguaggio riuscisse leggibile unicamente per il cubano immerso in simili dibattiti. Padilla parla tutto il tempo con codici, termini e riferimenti molto vicini a persone al corrente di cosa stesse parlando. Cita scrittori e situazioni che conosciamo solo noi cubani. Io invece dovevo raccontare la storia a gente che potenzialmente nemmeno sapeva che Cuba fosse un’isola dei Caraibi. Pulire questo linguaggio è stata una delle attività più complicate e lunghe.

C’è stato anche un lavoro per strutturare il racconto, oltre che per ripulire il linguaggio?

Certo. L’altra questione spinosa è consistita nell’elaborare il dilemma di Padilla in tre atti drammatici, organizzarne le idee dal punto di vista cinematografico. Sto facendo un film, non un reportage televisivo, né una rivelazione integrale del materiale. Come spiegare allo spettatore comune, che non sa di cosa stiamo parlando, come quest’uomo fosse finito in tale situazione? Raggiungere questo livello di chiarezza mi è costato quasi due anni di lavoro, di cui almeno un anno di sola ripulitura del materiale.

Parliamo proprio del materiale. C’è una parte del discorso di Padilla, molto incalzante, in cui si appella direttamente a compagni e scrittori: per esempio, Cesar Lopez, Norberto Fuentes, José Lezama Lima. È uno dei punti in cui sale la temperatura del film. Hai ravvisato che in effetti il filmato originario avesse una sorta di potenziale drammatico, e non fosse pura cronaca?

È esattamente così, proprio come l’hai detto. Di fatto, quella di Padilla era una sceneggiatura che si era pattuito si svolgesse in quel modo, compreso il fatto che andasse a nominare quegli amici e quegli scrittori. Il discorso originale era però denso e noioso; a me toccava dinamizzarlo, dargli una cadenza autenticamente cinematografica. C’è stato un momento in cui ho quasi azzerato la cronologia della pellicola e montato più cose insieme. Ho voluto spezzare la dinamica che io stesso stavo creando, farla esplodere, per cercare di scuotere lo spettatore. Perché l’ho fatto? Semplicemente perché non posso fare a meno di pensare e agire da cineasta che racconta questo racconto.

Sarebbe interessante – anche se tu lo definisci “noioso” – poter accedere al filmato originale per capire anche meglio come hai operato.

A me piacerebbe che si potesse vedere interamente questo materiale per far capire il lavoro tremendo che abbiamo fatto su di esso. Ricordo che parlando con la mia produttrice, le dicevo che era fortemente improbabile che il materiale venisse reso pubblico dal governo di Cuba, perché rischierebbe di mostrare alcuni aspetti controversi dal punto di vista politico. E lei mi ha risposto: non importa, perché adesso il tuo film spiega tutto, e lo spiega bene, fa sì che chi non abbia idea del caso Padilla lo capisca persino meglio del materiale bruto dell’autoconfessione del poeta.

Le riprese originarie di Padilla avevano un potenziale drammatico non solo nelle parole, ma anche nelle immagini. Anche se dici di aver fatto, su quel materiale, un lavoro di dinamizzazione, si coglie che dovevano esserci vari tipi di inquadrature, zoomate, stacchi del montaggio. Che idea ti sei fatto sul cineoperatore dell’epoca? Hai avuto la sensazione di prendere in mano del materiale che fosse, di fatto, già un film, e quindi, di aver fatto un’autentica riscrittura di un film preesistente?

Da quello che ho capito, gli operatori iniziarono con una sola macchina da presa, aspettarono che il lavoro di questa terminasse e continuarono con una seconda. Per un unico film, il risultato è tremendamente nocivo. Tutto il tempo c’è Padilla che parla, con una visuale più ampia o più stretta. Le immagini del pubblico nel materiale originale sono concentrate nei 20 minuti finali. Si tratta di piani che ho dovuto dosare e ricollocare io lungo il film. Per esempio, quando Padilla cita un personaggio, sono io che in fase di montaggio prendo da un’altra parte del filmato originale l’immagine di quel personaggio e la inserisco. Il filmato originale di Padilla è frutto di un copione ben scritto, ma mal interpretato.

El caso Padilla,

El caso Padilla, il poeta in uno dei tanti concitati momenti del suo discorso

Per lo spettatore sarebbe difficile reggerlo. Io stesso non sono mai riuscito a vedere la confessione di Padilla in un colpo solo. Mi dovevo fermare perché ero terribilmente annoiato. Ogni volta che lo vedevo, lo facevo con un occhio da regista, e contemporaneamente mi organizzavo mentalmente su quello che c’era bisogno di fare. È la stessa cosa che faccio con un film di finzione. Ho concepito El caso Padilla come un film di finzione in cui un attore interpreta Padilla.

C’è una sequenza in cui Gabriel García Márquez afferma che “il miglior lavoro politico che ognuno possa fare, è quello di fare bene il proprio lavoro”. Hai avuto anche tu la sensazione, nel realizzare El caso Padilla, che semplicemente facendo bene il tuo lavoro di cineasta, hai fatto inevitabilmente della tua opera un film politico?

Sì. Questa parte del film è quella che si avvicina di più al mio modo di pensare. Sono completamente d’accordo con Márquez. Se a Cuba ognuno avesse fatto bene il proprio lavoro, difeso il proprio interesse, e non si fosse fatto calpestare, Cuba oggi sarebbe un paese di gran lunga diverso. Quando fai il tuo lavoro con senso di responsabilità, è poco probabile che possa essere messo in discussione, mentre è molto probabile che si riesca a trasformare la società imperfetta in cui viviamo. Questo vale universalmente, non solo per Cuba. Il lavoro fatto con responsabilità contribuisce a rendere migliore tanto il proprio ambiente quanto il mondo tutto.

Márquez non è l’unico di cui hai recuperato delle dichiarazioni. Se ne ascoltano, tra le altre, anche di Jean-Paul Sartre e di Julio Cortázar. Il modo in cui le hai montate, dà la sensazione che quasi interagiscano col discorso di Padilla. Sono interventi che hai trovato o che hai cercato? Che tipo di ricerca hai fatto?

Li ho cercati e li ho trovati. Per la precisione, cercavo delle cose e ne ho trovato altre. Ho cercato di concentrarmi su tutto l’universo che circondava il caso Padilla, con tutta la gente coinvolta. Ci ho messo ore ed ore per trovare informazioni. All’epoca se ne parlò poco; c’erano poche dichiarazioni, per lo più inedite. Per ognuno dei personaggi che citi ho fatto delle ricerche. Per me era importante sapere cosa significassero la creazione e la libertà per i firmatari della lettera contro Fidel Castro (si tratta di una lettera scritta da un gruppo di scrittori e intellettuali al leader cubano in protesta per quanto avvenuto ai danni di Padilla, n.d.R.).

Avevo bisogno di capire perché questi uomini, forti delle loro opinioni, pur avendo appoggiato la rivoluzione e creduto in essa, avvertissero l’esigenza di far conoscere al leader della stessa il loro sentimento sul fatto che un poeta fosse stato imprigionato per la sua opera considerata dissidente. Quando ho trovato in archivio le dichiarazioni Márquez, Sartre e Cortázar sul ruolo dell’artista nella società, mi sono apparse di notevole impatto.

Ricordo una frase di un altro scrittore, Roberto Bolaño, a proposito del ruolo dei letterati in Sudamerica: “una volta gli scrittori spagnoli (e ispanoamericani) entravano sulla scena pubblica per trasgredirla, per riformarla, per bruciarla, per rivoluzionarla”. Mi fa pensare alla scena in cui Padilla mostra una celebre foto scattatagli da Lee Lockwood, che lo ritrae mentre legge il giornale con aria pensativa, e osserva che merito del fotografo è stato quello di farlo apparire come un enfant terrible. Dice che questa figura dello scrittore e del poeta dissidente è una figura caratteristica. A tuo avviso, ai giorni nostri, si può dire che questa figura sia stata in parte sostituita da quella del cineasta?

Ti riferisci a me? (Sorride, n.d.R.) Sì, questa figura esiste ed esisterà sempre. Nei regimi totalitari di qualsiasi società ci sono artisti che sfidano, mettono in discussione, spiazzano il potere. La libertà assoluta di creazione non esiste da nessuna parte, ma ci sono posti in cui è più limitata, come Cuba, Venezuela, Corea del Nord, Russia, dove la libertà di espressione è molto più limitata. È in questi paesi che un creatore che discute il regime diventa finisce sotto la lente d’ingrandimento.

El caso Padilla, pagina di giornale

El caso Padilla, una pagina di giornale informa dell’arresto del poeta. Fonte: FIGA FILMS

Se lo faccio io rispetto a un contesto come Cuba, ad esempio, riesce più evidente rispetto al film su un dissidente degli Stati Uniti. Magari ce ne sono 70 di film così negli Stati Uniti, ma passano inosservati, a differenza del mio, che mette a nudo il governo di un paese, della dittatura cubana che ha regnato per più di sessanta anni. È il sistema che dà validità alla mia opera, non l’opera in sé. Il sistema mi dà uno status, affinché il resto del mondo non osi sfidare nello stesso modo.

 Visto che citi la Russia, mi fai pensare a quella scena de Il caso Padilla in cui lo scrittore Carlos Fuentes afferma che nell’aver visitato l’Unione Sovietica, ha avuto la sensazione che dietro il travestimento marxista-leninista, persisteva “la Russia eterna, col suo problema essenziale, che è stato l’incapacità di separare i poteri”. Quanto ti sembra attuale questa disamina, visti i recenti fatti del conflitto tra Russia e Ucraina?

Quello che citi è per me il momento più influente del film. Sono totalmente d’accordo con questa frase di Carlos Fuentes. La teoria marxista fu elaborata in paesi come Inghilterra e Germania, che erano il motore economico del mondo. Eppure, di un termine come “comunismo” arriva ad impossessarsi persino Hitler, pur di attirare le classi operaie, così come Lenin, per un paese che veniva in realtà dal socialismo. Il comunismo non è mai esistito né esisterà, perché è stato costantemente violato. La frase di Fuentes è lapidaria perché racconta quello che è successo a Cuba e in altri paesi, dove ci sono state solo “versioni” del comunismo, ma non il comunismo autentico. Il grande peccato del comunismo quando viene impiantato è di non essere stato capace di separare i poteri, col risultato di sfociare in dittature.

Una delle caratteristiche delle dittature è quella di sviluppare rigorosi sistema di controllo. Ne El caso Padilla c’è una scena in cui il diplomatico cileno Jorge Edwards afferma che in tempi difficili i sistema rivoluzionari, sentendosi attaccati dall’esterno, tendono a sviluppare una forma di sorveglianza che all’inizio è necessaria, ma che nel caso della rivoluzione cubana è stata qualcosa di più: un’ossessione. Dove si trova il confine tra la sicurezza nazionale e la libertà? Pensi che alla fine il tuo film risponda a questa domanda, oppure che resti aperto a varie interpretazioni?

Io interpreto ciò che dice Edwards rispetto al momento in cui lo disse. Oggi, forse non lo direbbe. Le rivoluzioni, abbiamo imparato, si consolidano, si proteggono, si barricano, ma così facendo, smettono di essere rivoluzionarie, e quindi, di essere rivoluzioni. Storicamente, le rivoluzioni si sono spesso auto-tradite Quella cubana ne è un esempio manifesto. Cabrera Infante (noto scrittore e sceneggiatore cubano, morto nel 2005, n.d.R.) dice che l’anno della rivoluzione a Cuba fu un anno di splendore. Chi avrebbe immaginato che ne sarebbe scaturita una dittatura conservatrice e rigida con questi livelli di sofferenza sociale?

Dunque, al di là della situazione cubana, si possono riconoscere delle dinamiche universali nel tuo film?

Succede sempre così: le rivoluzioni le portano a termine leader che hanno una concezione del mondo molto romana, imperiale, e questo finisce per tradire la rivoluzione stessa a vantaggio della personalità del leader. Sono pochi quelli che puntano davvero alla trasformazione sociale in senso progressista. A parte Mujica (leader uruguayano, presidente dal 2010 al 2015, ex guerrigliero, n.d.R.), non conosco nessun altro esempio che si possa ammirare. Se la rivoluzione cubana ha avuto un merito, è stato quello di vendersi bene. Ha fatto un marketing impressionante, al punto che ancora oggi c’è gente che crede in essa – sempre meno, in realtà. C’è qualcosa di sintomatico nella sinistra attuale: il suo silenzio rispetto a Cuba; e il silenzio, parla.

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El caso Padilla

  • Anno: 2022
  • Durata: 78'
  • Genere: Documentario
  • Nazionalita: Cubana
  • Regia: Pavel Giroud