Il cinema di Sergio Leone. La vita, ma soprattutto l’opera di uno tra i più celebrati registi italiani al mondo: Sergio Leone ha vissuto da protagonista di spicco lo sviluppo del cinema italiano come prodotto di fruizione a livello finalmente mondiale.
Il grande regista romano è l’artefice di un nuovo concetto di western, rivoluzionario in quei primi anni ’60, che riuscì a rilanciare il cinema di casa nostra, ma anche un genere cinematografico come il western, ormai apparentemente giunto al capolinea.
L’autostrada di vita che ha percorso Sergio Leone nel suo viaggio, durato quasi settant’anni, è stata contraddistinta forse da poche fermate, ma tutte fondamentali: per il cinema, innanzitutto, portando quello italiano a una fruizione internazionale come mai avvenne altrimenti, e per l’arte in generale.
Leone nacque a Roma il 23 gennaio del 1921, figlio di un regista (Roberto Roberti, pioniere del cinema muto italiano) e di una cantante lirica.
Neppure maggiorenne, manifestò subito un attaccamento spasmodico alla settima arte, divenendo un giovanissimo aiuto regista, apprezzato anche dai registi americani che giungevano a Cinecittà per girare co-produzioni di livello.
Tra i maestri con cui il giovane Leone collaborò, si distinsero Mervyn LeRoy (per Quo Vadis – 1951), Robert Wise, che aiutò nella realizzazione di Elena di Troia (1956), e William Wyler che assistette per la complicata realizzazione del celebre colossal Ben Hur (1959).
Nello stesso anno il giovane Leone contribuì alla stesura (assieme a nomi del calibro di Ennio De Concini, Duccio Tessari, Sergio Corbucci) del “peplum” Gli ultimi giorni di Pompei, col muscolare Steve Reeves come protagonista, e divenne anche assistente alla regia del titolare, Mario Bonnard.
Nel 1960 avviene l’esperienza della prima vera regia con il colossal a co-produzione italo-franco-spagnola intitolato Il colosso di Rodi, per il quale il giovane talentuoso regista dà prova di saper gestire al loro interno troupe numerose, destreggiandosi con abilità nella realizzazione di scene complesse e riprese tecnicamente a largo spettro.
Prima di trionfare come padre incontrastato del genere “spaghetti-western”, Leone venne in aiuto del grande Robert Aldrich nel portare a termine un’altra produzione in costume: si tratta del film Sodoma e Gomorra, di cui Leone cura in particolare le coreografie delle scene di battaglia, e dirige la seconda unità della troupe tecnica.
L’intuizione di far rivivere il genere western in produzioni di casa propria, girate in interni a Cinecittà e in esterni nei deserti di Almeria, in territorio spagnolo, rende artefice Sergio Leone di cinque capolavori di questo genere, riconosciuti nel loro valore assoluto dagli stessi americani, nonché capostipite di un genere che, da quel 1964 di Per un pugno di dollari, darà alla luce un vero e prolifico filone in grado di sformare opere fino agli albori degli anni ’80.
La cosiddetta “trilogia del dollaro”, che comprende, oltre al citato Per un pugno di dollari, anche il successivo Per qualche dollaro in più (1965) e Il buono, il brutto e il cattivo (1966), fece scuola e proseliti. Il buono, il brutto e il cattivo, in particolare, oltre a essere divenuto uno degli western più conosciuti e apprezzati della storia del cinema, fu girato con un budget atipico per quel genere nascente, ammontante a quasi un milione di dollari.
È merito di Leone aver trasformato un attorino bello ma a prima vista decisamente inespressivo nel Clint Eastwood monumento mondiale del cinema di tutti i tempi.
Di lui Leone pronunciò la celebre frase che, ai tempi, non pareva proprio un gran complimento: “Mi piace perché è un attore che ha solo due espressioni: una col cappello, e l’altra senza cappello”.
Ma celebri furono anche altre considerazioni che Leone fece sui suoi attori, quasi sempre volti noti o notissimi dello star system hollywoodiano:
“Robert De Niro si butta nel film e nel ruolo assumendo la personalità del personaggio con la stessa naturalezza con cui uno potrebbe infilare un cappotto, mentre Clint Eastwood indossa un’armatura e abbassa la visiera con uno scatto rugginoso. Bobby, prima di tutto, è un attore. Clint, prima di tutto, è un divo.
Bobby soffre, Clint sbadiglia.”
Si può essere maestri incontrastati del cinema con alle spalle “solo” sette opere da regista?
Gillo Pontecorvo, con i suoi notevoli cinque film e mezzo sulle spalle, insegna di sì, ma è Sergio Leone, con i suoi sette gioielli cinematografici in costume, tra peplum, western e gangster movie, a ratificare la circostanza che il numero non fa mai la qualità e la grandezza di un cineasta.
Oltre al ruolo da regista, Leone apparve anche in diverse pellicole come interprete (pure in Ladri di biciclette di Vittorio De Sica del 1948, pur se non accreditato), e soprattutto fu sceneggiatore e produttore esecutivo per alcuni titoli famosi, spesso inerenti il peplum (come sceneggiatore – Afrodite, dea dell’amore – 1958, Gli ultimi giorni di Pompei – 1959, Romolo e Remo – 1961) e lo spaghetti western (produttore esecutivo, spesso non accreditato, di opere famose e di gran successo come Il mio nome è nessuno di Tonino Valerii – 1973, Un genio, due compari, un pollo di Damiano Damiani – 1975).
Da segnalare anche la fitta collaborazione con Carlo Verdone, per il quale scrisse e produsse Troppo forte – 1986, seguendo da vicino la realizzazione dei film d’esordio di Verdone, ovvero Un sacco bello e Bianco, rosso e Verdone.
Sergio Leone pertanto ha vissuto da protagonista di spicco lo sviluppo del cinema italiano come prodotto a fruizione mondiale, risultando l’artefice di questo nuovo concetto di western rivoluzionario in grado di rilanciare il cinema di casa nostra, e un genere ormai apparentemente giunto al capolinea.
Qui di seguito, osservando un ordine cronologico, alcune brevi considerazioni sui film che videro Sergio Leone nel ruolo di regista.
Sergio Leone: italico peplum, reviviscenza western e gangster movie definitivo
“La vita è un’autostrada a senso unico di marcia: impossibile invertire o tornare indietro; ma non meno folle sarebbe accelerare”.
Il colosso di Rodi (1960)
Primo film ufficialmente da regista unico di Sergio Leone, che, già avvezzo nel genere del peplum per i ruoli da aiuto regista ricoperti fino a quel momento, prende le redini un po’ complicate dell’ambiziosa coproduzione italo/franco/spagnola, incentrata sul celebre mito del monumento che la leggenda vuole posto all’imbocco della città di Rodi da parte del re Serse.
La storia del film prova a spiegare le ragioni per cui il mastodontico monumento finì per sbriciolarsi in mare, ma di fatto si concentra sulle vicende dei due protagonisti, il ribelle Dario (Rory Calhoun) e la bella Diala (Lea Massari).
Durante le peripezie della lavorazione, Leone rischiò di essere tolto di mezzo a seguito della lite tra lui e il protagonista designato, ovvero l’attore e futuro regista John Derek (più noto per essere stato il marito di donne bellissime come Ursula Andress, Linda Evans, Bo Derek, che come autore cinematografico). La disputa finì a favore del nostro Leone, che, a furor di popolo, fu richiamato sul set da attori e maestranze, e il ribelle Derek cacciato dal set.
Per un pugno di dollari (1964)
“-Tirate molto bene. Quando si vuole uccidere un uomo bisogna colpirlo al cuore, e un Winchester è l’arma più adatta.
-Io preferisco la pistola.
-Quando l’uomo con il fucile incontra l’uomo con la pistola, l’uomo con la pistola è un uomo morto.”
In una cittadina sperduta al confine con gli Stati Uniti e il Messico, dove la legge è rappresentata da due potenti famiglie che si contendono ogni affare, passa un pistolero solitario e silenzioso.
Con una tattica tutt’altro che improvvisata, l’uomo finge di allearsi a entrambe le fazioni, all’insaputa una dell’altra, facendo in modo che le stesse, già ai ferri corti da tempo, si massacrino a vicenda.
Il film fu un successo totale, ufficiale caposaldo del genere “spaghetti western” e primo film della cosiddetta “Trilogia del dollaro”.
Tuttavia, nonostante il clamore e gli incassi, per Leone quel film non si rivelò, a differenza di quelli che seguirono, una fonte di incassi personali cospicua, a causa di un’accusa di plagio che il grande Akira Kurosawa minacciò di intentare al regista romano.
Leone, senza nascondere nulla, già aveva anticipato ufficialmente di essersi ispirato, nella costruzione dell’intreccio narrativo, al capolavoro del regista giapponese intitolato La sfida del samurai (Yojimbo – 1961), di cui il regista romano studiò nei particolari pure il copione, per adattare la vicenda all’universo western ricostruito in terra italiana o al massimo europea.
La causa non fu mai portata avanti, nonostante la vicenda dei due film sia pressoché identica, con il guerriero protagonista che assume le vesti di samurai nel primo caso (Toshiro Mifune), e di pistolero nel secondo (Clint Eastwood); la soluzione venne trovata concedendo a Kurosawa, a titolo di risarcimento, i diritti per la distribuzione del film in Giappone, Corea del Sud e Formosa, e la diatriba cessò senza troppi rancori.
Per qualche dollaro in più (1965)
“-Ho una domanda, se non è indiscreta.
-Le domande non sono mai indiscrete, ma le risposte a volte lo sono…”
Il silenzioso Monco e lo sprezzante colonnello Mortimer sbarcano il lunario facendo i cacciatori di taglie. Le loro strade sono destinate a incrociarsi, nonostante l’individualismo che li caratterizza, quando si trovano a dover catturare un capobanda matto e assassino di nome Indio. Loro malgrado, saranno indotti a unire le forze per debellare la banda sadica del folle fuorilegge.
“Dove la vita non aveva valore, la morte talvolta aveva il suo prezzo. Ecco perché nacquero i bounty killers”.
Ed ecco come nacque la leggenda “Leone”, lo Spaghetti western, e Clint Eastwood star hollywoodiana grazie a una manciata di film che nulla avevano a che spartire con quel mondo, tranne che lo splendido modo di ricalcarne le gesta.
Il buono, il brutto, il cattivo (1966)
“Il mondo si divide in due categorie: quelli con la pistola carica, e quelli che scavano. Tu scavi …”
Nel film che chiude la famosa “trilogia del dollaro”, il Brutto (Tuco, Eli Wallach), il Buono (Biondo, Clint Eastwood) sbarcano il lunario beffando gli sceriffi e approfittando della taglia del primo, che si fa catturare dal secondo, e poi liberare in extremis una volta incassata la taglia.
Le strade dei due si incrociano con quelle del Cattivo (Sentenza, Lee Van Cleef), che è alla ricerca di un tesoro nascosto in un cimitero da trovare. E quando c’è di mezzo l’oro, le amicizie che già latitano, lasciano il posto alla diffidenza e al tutti contro tutti.
“Non basta una corda a fare un impiccato”.
Apice dell’arte cinematografica del grande Leone, il film sperimenta tempi e rarefazione di dialoghi del tutto insoliti per un genere destinato alla massa, puntando sui dettagli, sul montaggio serrato, e sulla magistrale colonna sonora di Morricone, che più di tante parole riesce a rendere l’epica della pochezza e inaffidabilità umana. Un capolavoro, naturalmente.
C’era una volta il West (1968)
“-Cosa posso fare per voi signora?
-Vorrei dell’acqua, se non vi dispiace.
-Acqua? … Oh .. vedete, qui è dal tempo del diluvio universale che nessuno ha voluto più saperne dell’acqua.”
Il vedovo McBain vive nel deserto con i figli, e sta per essere raggiunto dalla giovane e bellissima seconda moglie, Jill (una Claudia Cardinale nel suo ruolo più rilevante assieme a quello di Angelica de Il Gattopardo), sposata per corrispondenza, in procinto di raggiungerlo da New Orleans. Diventerà presto una giovane vedova, costretta a confrontarsi con un campionario di umanità che spazia tra psicopatici fuorilegge (il sadico Frank di Henry Fonda), avventurieri (il Cheyenne di Jason Robards) e un meticcio silenzioso (l’Armonica indimenticabile interpretato e suonato dal più granitico che mai Charles Bronson) ma affidabile, in cerca pure lui, come la vedova, della sua vendetta.
Leone dà vita a un’epopea della violenza e del cinismo che, forti di un esaltante, calcolato autocompiacimento e della galvanizzante musica sontuosa di Morricone, riesce a cementare il film nel cuore dello spettatore, permettendogli di raggiungere l’estasi e di rendere la pellicola un caposaldo indimenticabile del western in assoluto. Un altro capolavoro, inevitabilmente.
Giù la testa (1971)
“-Dove c’è rivoluzione… c’è confusione… dove c’è confusione, un uomo che sa ciò che vuole ci ha tutto da guadagnare.”
Un bandito messicano di nome Juan Miranda (Rod Steiger), nella prima metà degli anni ’10, si unisce per caso o per destino alle truppe di Pancho Villa e Emiliano Zapata, ma il comandante dell’esercito governativo, per rappresaglia, gli uccide tutti e sei i figli. Il bandito decide di vendicarsi, ma, fatto prigioniero, dovrà contare sulla collaborazione di un altro fuorilegge (Sean Mallory – James Coburn) che riuscirà a convertirlo alla causa della rivoluzione.
Leone ambisce a qualcosa di più alto, e decide di intridere il suo western con afflati antimperialisti e anticapitalisti. Ci riesce usando sobrietà, e puntando su una sceneggiatura che lascia spazio a ironia e momenti scanzonati, in grado di non appesantire eccessivamente la vicenda.
Ambizioso, forse troppo per riuscire a fare il centro come con i suoi film precedenti.
-“Noodles cos’hai fatto in tutti questi anni?
-Sono andato a letto presto…”
La storia del crimine organizzato da inizi anni ’30 per i successivi quarant’anni, viene ricostruita sontuosamente ed epicamente da Leone tramite una serie di flashback che ci restituiscono scampoli di vita del protagonista David “Noodles” Aaronson (Robert De Niro) e del suo migliore amico, Max Bercovicz (James Woods), dalla gioventù delle prime scoperte sessuali alla maturità, fino a una vecchiaia che ce lo fa ritrovare annebbiato e dallo sguardo perso, trasognato e vagante nel vuoto, come se tutto il percorso esistenziale fosse passato attraverso il filo di fumo che impregna le sale di un vecchio bordello.
L’ultimo, magnifico, indimenticabile film di Sergio Leone regala allo spettatore l’emozione da brivido che non finisce nel comunque breve periodo della durata non comune dell’opera.
La possibilità concessa al pubblico, di perdersi letteralmente in quelle quattro ore di sogno americano, convincendolo sempre più che l’ultima sequenza del film – quella con De Niro-Noodles strafatto dai fumi che guarda prima atono l’obiettivo, poi sorride al pubblico con espressione estatica, ironica e quasi strafottente – si rivela il prezioso e ultimo ironico istante cinematografico di un maestro ineguagliato.
Un uomo di cinema che, alla fine, ci vuole dimostrare come tutta quell’ardita ricostruzione temporale, fatta anche di flash back complessi, ma calibratissimi, non sia altro che il sogno a occhi aperti di un uomo qualunque, reso ebbro da un po’ di vivida immaginazione e adeguati stimoli utili a far lavorare la mente.
In questa ipotesi, affascinante e un po’ decadente, il cinema diventerebbe il più bell’inganno che ci si possa aspettare da una vita che inevitabilmente non potrebbe regalare così tante emozioni, o non certo in così poco tempo: quattro ore di sensazioni forti vissute da spettatore in solitudine cosciente, ma non deliberatamente cercata, da eremita orgoglioso, padrone incontrastato di una sala che ancora una volta si rivela il mezzo ideale per isolare lo spettatore a tu per tu col “suo” capolavoro.