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Interviews

Finalmente ‘Utama’ al cinema: l’intervista ad Alejandro Loayza Grisi

Arriva in sala il film che ha vinto al Sundance Festival 2022. Basta incrociare tra amore e malattia una coppia di nonni col nipote di città per raccontare i "cent’anni di solitudine" della cultura quechua in Bolivia. Con risvolti su clima e migrazione

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Utama

Il condor è atterrato lì, sulla terra riarsa dal sole, accanto a Virginio. Le rughe sul viso dell’allevatore somigliano alle crepe che solcano il terreno dopo la lunga siccità. Utama è la nostra casa, la casa di Virginio e Sisa, sull’altopiano boliviano. Spopolato dai migranti che cercano di sopravvivere in città. Ed è davvero questione di sopravvivenza, nel film dell’esordiente Alejandro Loayza Grisi, vincitore del Sundance 2022 nel concorso internazionale (World Cinema Dramatic). Boliviano, figlio d’arte, racconta una storia d’amore e malattia in terre impossibili, dove il sole è sempre zenitale e il pueblo si spopola. Al cinema dal 20 ottobre (titolo italiano: Utama – Le terre dimenticate), distribuito da Officine Ubu

Dentro Utama

Sopravvivenza è quella di Virginio (José Calcina), malato terminale come la sua terra. L’ottantenne capisce di essere in fin di vita per la tosse spietata che gli spacca il petto: il condor, credono i nativi, prefigura proprio il cammino dell’anima verso l’aldilà. Sopravvivenza è nella resistenza alla migrazione della cultura quechua: condivisa con l’amata Sisa (Luisa Quispe) – una vita passata insieme e un amore ancora profondo. Anche per la Terra, quella con la T maiuscola, si tratta di resistere: il cambiamento climatico, implacabile, prosciuga il rio e asseta la popolazione locale. La pompa a mano dei pozzi – a chilometri di distanza – cigola, sterile: nemmeno una goccia.

Utama, donne al fiume

Utama, donne al fiume. Il paesaggio in campo lungo appare bruciato dalla siccità

Dalla città, di cui il patriarca non vuol nemmeno sentir parlare, contentandosi del pascolo dei suoi lama, arriva il nipote: cellulare, cuffie, laptop. Altra generazione. Non sa parlare la morente lingua quechua. Ma saprà parlare la lingua degli affetti e convincere i nonni a trasferirsi e Virginio a curarsi?

Grandioso, austero e commovente, Utama di Alejandro Loayza Grisi assorbe i temi del cambiamento climatico, della migrazione e dell’eclissi solitaria delle culture indigene in una love story di malessere e tenerezza. Ne abbiamo parlato col regista in un’intervista esclusiva.

La trama

Utama è prodotto da Santiago Loayza Grisi (Alma Films) & Federico Moreira (La Mayor Cine) in co-produzione con Alpha Violet Production.

Negli aridi altopiani boliviani, un’anziana coppia quechua vive da anni la stessa routine quotidiana. Quando una siccità insolitamente lunga minaccia il loro intero stile di vita, Virginio e Sisa affrontano il dilemma di resistere o di essere sconfitti dal passare del tempo. Tutto è precipitato dall’arrivo del nipote Clever, che viene in visita con delle novità. Nel sorprendente film d’esordio di Alejandro Loayza Grisi, i tre affronteranno ciascuno a modo suo l’ambiente, la necessità del cambiamento e il significato della vita stessa. (Fonte: Alpha Violet)

L’intervista: Alejandro Loayza Grisi racconta Utama

Tu sei un regista boliviano e Utama si svolge in Bolivia, nelle Tierras Altas. I temi, però, sono universali: il cambiamento climatico, le migrazioni, la perdita delle culture. Parlare di tutto questo è stato semplicemente trasformare in un film luoghi che già conoscevi, oppure ti sei dovuto immergere, quasi come un documentarista o un antropologo, nella cultura quechua?

Con mio fratello Santiago e con nostro padre abbiamo intrapreso un lungo viaggio di documentazione. In Bolivia abbiamo un’impresa produttiva. Santiago è il produttore di Utama – Le terre dimenticate. Gran parte del successo di questo progetto risiede nel fatto che ne abbiamo parlato molto, dall’idea originale fino ai singoli punti della scaletta delle cose da fare. È un progetto “conversato”. È così che mi piace lavorare. Il cinema è l’arte collaborativa per eccellenza, che quanto più si nutre della conoscenza delle persone, meglio rende.

Con i suoi campi lunghi nel paesaggio incontenibile, Utama inizia nella natura e finisce nella natura. Essa è per Virginio la casa, ma in alcuni momenti, in realtà, diviene la nemica. Penso alla scena in cui l’uomo vede la montagna da scalare, a cui sacrificare come a un dio capriccioso per interrompere la siccità, e sussurra a sé stesso che morirà lì. E naturalmente, penso alla siccità stessa. Visto questo sottotesto climatico, come hai rappresentato la natura? Come vittima o carnefice dell’uomo?

Penso che la natura sia vittima dell’uomo, ma anche che abbia i propri modi per manifestarsi. È al di là di noi e ci sarà sempre, anche quando l’umanità sparirà. Purtroppo, nel manifestarsi rispetto a ciò che le facciamo, la natura fa le sue vittime. Chiaro, non volevo sottolineare questo, quanto che ciò che noi facciamo, di fatto ce lo autoinfliggiamo. La coppia formata da Virginio e Sisa deve resistere a queste condizioni climatiche e ad abbandonare quello che è sempre stato il loro focolare domestico. È interessante la dialettica vittima/carnefice che mi pone la tua questione, perché la chiave è in questo cammino di andata e di ritorno: dobbiamo ascoltare i messaggi della natura e saperli restituire. Non può trattarsi di una strada a senso unico in cui l’uomo si limiti a perseguire in maniera indipendente i propri obiettivi senza tener conto della natura.

Quello di Sisa e Virginio è un dilemma: restare nella propria terra, nonostante la siccità, oppure migrare, come già hanno fatto altri. In questo dilemma, da regista ma anche da sceneggiatore, che tipo di posizione hai preso? C’è infatti una scena in cui una donna della comunità dice: “siamo soli con noi stessi”. Hai dunque cercato di mostrare le scelte della coppia come difesa della tradizione o come solitudine forzata?

Credo entrambe. I luoghi di Utama sono i più abbandonati della Bolivia e del mondo, o almeno del Sudamerica. Questa desolazione si sente e volevo mostrarla. Per il fatto di essere un luogo tanto isolato, protegge con maggior forza le proprie tradizioni. Ma questo non succede solo in Bolivia. Con la globalizzazione, si possono trovare tante storie del genere. I paesi si assomigliano molto di più rispetto a quanto non avvenisse negli anni ’50. Stiamo perdendo individualità nella globalizzazione. In Bolivia si conservano alcuni costumi, ma al prezzo di restare, appunto, abbandonati. È questo un altro tema che volevo affrontare: le conseguenze del cambiamento climatico stanno facendo soffrire le comunità indigene più sole del pianeta. Da un lato, globalizzandosi, il mondo è più connesso; dall’altro, ci sono luoghi abbandonati e senza connessione.

In tutte le inquadrature in cui le figure umane rimpiccioliscono soverchiate dalla sagoma della montagna, specie nella prima scena, ho quasi la sensazione di vedere un western. È tuttavia abbastanza solare che il film si sviluppi, poi, per larghi tratti, come una storia d’amore. Attori nativi, coppia reale nella vita. Si vede che hai lavorato molto sui gesti: le distanze, gli sguardi, le carezze, i bronci. Ci racconti come?

La differenza rispetto a un western è che in questo genere c’è la conquista e il dominio di una natura sconosciuta. In questo caso, la natura è conosciuta, ma sta cambiando, e le persone devono riadattarsi. Con la coppia, il lavoro è stato molto bello, ci siamo divertiti molto. Abbiamo lavorato con silenzi e gesti, provando tantissimo. Ci siamo allenati su sguardi, modo di camminare, interazione nello spazio. Abbiamo ripassato il film dall’inizio alla fine, scena dopo scena.

Utama, Sisa si pettina mentre Virginio parte per il pascolo

Utama, raffinata inquadratura in cui Sisa si pettina mentre Virginio parte per il pascolo

Hai indicato anche qualche esempio cinematografico ai tuoi attori per poter consolidare la loro recitazione?

Abbiamo visto un paio di film insieme: Nuvole in viaggio (1995) di Aki Kaurismaki, dove si usa molto silenzio; e Ultimo tango a Parigi (1972) di Bernardo Bertolucci, perché lavora soprattutto con gli sguardi. I due attori si sono completamente votati al film, hanno cercato di fare un buon lavoro e l’hanno fatto. Alla fine, come ti ho detto, ci siamo divertiti tutti e questa era la cosa più importante. Avevamo anche un coach che ci ha accompagnato durante le prove. La prima metà del giorno lavorava con loro in tipiche esperienze attoriali come gridare, modulare la voce, giocare col corpo, improvvisare. Il pomeriggio e la sera giravamo il film. È stato un corso di recitazione intensivo di un mese che ha dato i suoi frutti.

Se Utama fosse stato un film europeo o americano, in ragione della malattia di Virginio, qualche critico avrebbe scomodato l’etichetta di cancer movie, o film di malattia. È un filone che porta con sé alcuni codici narrativi: il trauma della scoperta, la preparazione della morte, il dolore dei sopravvissuti, la riflessione sul senso della vita. Come ti sei relazionato con questo aspetto di Utama?

Era uno dei temi centrali del film. L’idea era di creare un’analogia tra quello che succede a una cultura e quello che succede a una persona. Morendo Virginio, muoiono anche le tradizioni. Se tutti migrano, e Virginio muore, si può dire che l’unica rappresentante della cultura resti la moglie Sisa. L’altra analogia è col condor di cui parla Virginio, che a un certo punto gli appare. Nella cultura andina è il guardiano della vita e della montagna, perché solo lui può vedere dall’altro il vero stato di salute della montagna stessa. Ed è un animale in estinzione.

Come si collega, invece, il filone narrativo della malattia con quello sentimentale?

La morte di Virginio è una parte essenziale anche per la storia d’amore. È un amore così puro che l’uno capisce l’altro come se fossero una cosa sola. Il dilemma è: cosa succede alla mia metà se io muoio? Questa preoccupazione che lui ha è anche una forma di possessività. Quando Virginio arriva a capire che lei starà bene senza di lui, allora capisce anche che può consegnarsi alla morte.

Finché Virginio è in vita, è come se il film stesso vivesse. Avete fatto una scelta molto forte nel montaggio sonoro: amplificare il respiro di Virginio e usarlo come un metronomo per scandire il ritmo del racconto. In che fase della realizzazione di Utama è intervenuta questa idea?

Già dall’inizio, ancora prima delle riprese, sapevamo che la respirazione di Virginio sarebbe stata importante per il design sonoro. Abbiamo infatti registrato molti respiri e colpi di tosse. Ma è solo nel montaggio e nella progettazione sonora che il respiro è diventato, come dicevi tu, il metronomo del film, dandogli il ritmo. Sapevamo che doveva essere presente questo aspetto, ma essendo Utama un film abbastanza silenzioso, dovevamo anche trovare una forma di equilibrio tra presenza e assenza, farlo percepire come qualcosa di avvolgente. Durante il montaggio abbiamo capito quanto fosse potente questo strumento espressivo, e l’abbiamo ulteriormente potenziato. Il risultato finale ci soddisfa.

Un film che si basa sui suoni della natura e del respiro, nonché sui silenzi, non avrebbe bisogno di molto altro. Invece mi colpisce che tu abbia deciso di utilizzare anche un’incisiva colonna sonora. Non è una scelta scontata, anche perché fa percepire la creazione drammatica rispetto a un potenziale effetto documentario. Come hai gestito l’uso della colonna sonora nella scrittura del film?

Il direttore del suono (Federico Moreira, con la collaborazione di Fabián Oliver, n.d.R.), considerava importante poter stare sul posto per capire come suonasse o non suonasse. Il suono di questo luogo è molto particolare perché lo spazio è aperto e il suono viaggia molto. Dal canto mio, sin dall’inizio volevo che ci fosse la musica. Mi piace il cinema classico e la costruzione del cinema come gioco, come conduzione di un formato per raccontare una storia avvalendosi degli strumenti opportuni. Ci sono molti film che non usano la colonna sonora e funzionano bene, ma a me piace giocare anche a questo livello con il suono. All’inizio della mia carriera nell’audiovisivo, coprivo i concerti di Cergio Prudencio. Si tratta di un autore e musicista che ha collaborato con orchestre sperimentali di nativi. Erano concerti impressionanti, ne restavo allucinato: era come se il suono riuscisse ad avvolgerti, a trascinarti in un’esperienza totale.

Ebbene, per Utama desideravo la stessa cosa, che la musica trasportasse e fosse ispirata a strumenti nativi ma anche con aggiunte occidentali. È la stessa cosa che stavo facendo a livello filmico. Il cinema è arte moderna dell’Occidente, ma con Utama è portato in un territorio della mia tradizione. Questo dialogo tra tradizione e modernità della musica, volevo che fosse nella musica stessa quanto nelle immagini, integrandosi nella colonna sonora.

Quando un regista sceglie di aggiungere la musica, conta anche dove lo faccia. Tra le varie scelte, mi colpisce l’incantevole canzone che chiude il film, sui titoli di coda. Immagina di dover raccontare questa musica a chi non abbia visto il film.

Per il finale di Utama, ho sempre voluto una voce femminile. ed ho sceltoo quella di Verónica Pérez, cantante abbastanza importante in Bolivia e, tra l’altro, mia ex ragazza (ride, n.d.R.). Il finale stesso, d’altro canto, è femminile. Riguarda Zisa e cosa farà della sua vita. Ma c’è anche un’altra curiosità. Finire così il film è stato anche un omaggio indiretto a mio padre, Marcos Loayza, che ha girato nel 1995 il film Cuestion de fe, facendolo concludere con la meravigliosa voce della cantante Susanna Baca. Ho sempre tenuto a mente questo momento come il più sublime del film. Quando partono i titoli di coda, entra questa voce femminile, ed è semplicemente fantastico.

Al minuto 21, nel paesaggio sonoro di questo film entra anche un suono che sembra non avere nulla a che fare col mondo di Virginio e di Sisa: quello di un cellulare. Ovviamente, è legato al personaggio di Clever, il nipote che viene dalla città e innesca un difficoltoso dialogo generazionale. C’è una scena in cui il nonno e il nipote, camminando sulla strada verso casa, intraprendono una sfida muta a chi cammini più veloce, con sorpasso e contro-sorpasso. Cosa racconta questa sequenza?

Credo sia una sequenza dal respiro praticamente comico. Ma parla anche del modo del nonno di avvicinarsi al nipote. La sensazione è che stia giocando, ma che sia anche un modo di torearlo, di mostrargli la sua licenza di patriarca. In questa visione patriarcale, quando il patriarca riconosce che non è più tale, passa alla battuta. Nella nostra natura c’è sempre qualcosa del maschio alfa, della volontà di “uccidere il padre”. In Utama non compare esplicitamente, ma suppongo che non sia mai davvero possibile spogliarsi di questo machismo, e questa scena racconta anche di questo.

Utama, in cammino col gregge dei lama

Utama, in cammino coi lama: una delle numerose (e affaticate) scene di pascolo

Silenzi a parte, larghi tratti del film sono in lingua quechua. Quando arriva il nipote, però, si parla anche spagnolo. Qui sembra che tu abbia utilizzato una strategia: la lingua quechua non solo come lingua di comunicazione, ma anche come lingua della mancanza di comunicazione tra nonno e nipote, e come lingua che testimonia la perdita della cultura.

Vale quanto dici tu: incomunicabilità e perdita di cultura. Non succede solo in Bolivia. So che anche in Italia ci sono dialetti che si stanno perdendo, come in altre zone del mondo. Il fatto è che quando si perde una lingua, si dissolve anche la cultura che l’accompagna. Gli esperti di linguistica saprebbero inquadrare la questione con più precisione, ma è chiaro che si tratta di una perdita enorme. In Bolivia è successo qualcosa di particolarmente triste. I migranti contadini non insegnavano ai propri figli il quechua o il guaranì per farli adattare più rapidamente.

Ancora una volta, succede in tutti i paesi. C’è anche in Spagna un centralismo della lingua, del castigliano (durante l’intervista, Alejandro si trova a Madrid, n.d.R.). In Bolivia risalta di più perché ha implicazioni razziali. L’orgoglio del nonno di preservare la sua lingua comporta anche che ce l’abbia col figlio, colpevole di non averla insegnata al nipote. Ecco, quella del padre è una presenza citata in tutto il film, ma non si vede mai. Non è colpa del nipote, è colpa del genitore. È complesso testimoniare la perdita della lingua.

Ogni personaggio porta con sé i segni del suo mondo. Clever si accompagna a cellulare e cuffie, mentre Virginio “vede” altre cose. Penso alla scena del condor. La sensazione è che il rapace non ci sia nella realtà oggettiva, bensì che lo spettatore in quel momento veda il mondo dagli occhi di Virginio. Si può dire che le parti più magiche o mistiche di Utama siano viste dagli occhi di Virginio?

Sì, è corretto. L’apparizione del condor è onirica. È il segnale che il nonno morirà. Quando stanno per morire, i nativi credono di poter visualizzare il cammino dell’anima che appare nel paesaggio. Virginio sa che morirà e il condor rappresenta questo segnale per lui. È fantastico, non succederebbe nella vita reale, ma lascia il dubbio alla libera interpretazione: è vero o è nello sguardo di Virginio? E mi piace che persista questo dubbio, questa oscillazione tra reale e sogno a libera interpretazione. Questo è il significato del condor nella cultura delle Ande.

Dopo l’ultima edizione del festival di Venezia, ho avuto modo di intervistare il regista boliviano Kiro Russo, autore del film El gran movimiento. In questo film, Premio Speciale della Giuria di Orizzonti, la capitale La Paz viene raccontata come una città fatta di strati diversi: frenetica nella parte più bassa, quasi magica a 3600 metri d’altezza, ove tutto sembra acquisire un significato diverso. Che effetto ti fa come regista girare aver girato Utama a 4200 metri di altezza?

Aver girato lì implicava molte sfide per la produzione. Ci ha consentito di dialogare con lo spazio. Ci siamo chiusi in questo luogo. Io ci sono andato molto prima del resto della squadra e ci ho potuto davvero dialogare. Santos Choque, l’attore che interpreta il nipote Clever, è stato ancor più profondo: si è messo a lavorare nei campi per ore parlando con gli anziani per capire davvero il luogo dove stavamo effettuando le riprese del film. La sfida era quella di rappresentarlo fedelmente, di comunicare davvero lo spirito di questo spazio nel mondo.

Perché non hai mai mostrato la città? L’hai solo evocata dai dialoghi, come il personaggio che a essa si lega, ossia il padre.

Quella sulla città è una decisione che ho preso sin dall’inizio, da quando il film era solo un paragrafo. Sono stato molto ostinato su questa decisione. Alcuni consiglieri volevano che mostrassi anche la città, ma per me è stato importante che la storia fosse raccontata solo da quel luogo sperduto, perché è la storia di quel luogo. La città doveva rimanere un concetto. Mostrarla sarebbe stato un tradimento a Virginio. C’è una scena, se ci pensi, in cui il medico viene a visitarlo e gli raccomanda di andarsi a curare in ospedale, in città. La risposta di Virginio è secca: “non vado a perderci tempo”. E noi seguiamo lui, la finzione: non ci possiamo andare. Volevo che tutto il film fosse fedele al suo modo di pensare.

Utama, un esempio della fotografia di Barbara Alvarez

Utama, un esempio della fotografia di paesaggio di Barbara Alvarez

C’è anche un’attenzione “fotografica” a Virgilio, così come a Sisa. La fotografia in Utama sembra cesellata dal sole: fa attenzione tanto alle rughe dei visi dei nonni, quanto alle spaccature della terra rinsecchita. Prima di passare alla regia, tu sei stato più volte, in realtà, direttore della fotografia. Questa volta, invece, ti sei affidato ad altri, con una scelta tutt’altro che casuale. L’uruguaiana Barbara Alvarez è direttrice della fotografia esperta, di cui basterebbe citare La mujer sin cabeza (2008) di Lucrecia Martel per intenderne il valore. Come hai collaborato con lei? Quanta autonomia le hai lasciato?

Con Barbara Alvarez ho condiviso un dialogo molto bello e positivo. L’aspetto principale è che avevamo lo stesso film negli occhi. Quando abbiamo svolto le prime riunioni su Skype, lei ha avuto le mie stesse sensazioni di come volevo che si vedesse il film e di quale ritmo dovesse avere. Abbiamo visto insieme lo storyboard, l’abbiamo completato e unificato eliminando alcune inquadrature e aggiungendo delle altre, discutendo ogni scena e in particolare cosa volesse trasmettere. Volevamo trasmettere la desolazione. È un paesaggio così vasto, quello delle Tierras Altas, che non entra in una singola inquadratura. Come riuscire a comunicarlo?

Bisognava pertanto lavorare sulla luce. Non abbiamo usato i tramonti, resistendo a una forte tentazione, perché lì sono bellissimi. Abbiamo invece pensato che il sole ci dovesse essere sempre: forte, alto. Volevamo quasi intensificare la sensazione di calore e farla contrastare con l’ombrosità degli interni in cui bisognava invece ricoprirsi di vesti.

Restiamo sul piano visivo, ma anche del significato. Da cineasta, non pensi che il compito di un regista sia anche quello di recuperare dei segni che la gente comune non vede? E quali segni ti senti di aver recuperato in Utama?

Domanda molto difficile. Credo che i registi si aggrappino a ciò che meglio conoscono. Nel mio caso, le immagini. Sono partito dalla conoscenza e dall’esperienza per inquadrare, comporre, scegliere. Quello che un regista o sceneggiatore può mostrare è frutto di un pensiero costante: cosa voglio mostrare? In Utama, il soggetto è una storia d’amore nell’altopiano boliviano. Questa motivazione interna, però, è solo il punto di partenza: ti pone domande, ti porta a riflettere, a pensare. È come fare una tesi, arrivare a una conclusione dopo molte ore di lavoro. Per fare questo, da regista, devi saper gestire tutto: dai movimenti del corpo ai dialoghi; fino a rifugiarti, se serve, nella metafora. È la sfida principale per un regista che sia all’inizio della propria carriera.

Torniamo all’inizio, all’idea di casa, di ambiente, di spazio. Ma con un’accresciuta consapevolezza, dopo tutto quello che ci hai raccontato sul film. Come hai scelto il titolo Utama, che dovrebbe condensare il senso del racconto?

È una parola speciale. Mette insieme le parole nostro e casa. È qualcosa di profondo, la propria casa come focolare domestico, ma con un’appropriazione della realtà superiore rispetto alla parola spagnola hogar. Ne abbiamo discusso anche dal punto di vista fonetico: è una parola molto bella. Il progetto nasce con questa parola e sapevamo che non saremmo riusciti a tradurla. Solo in quechua ha questa forza. Mia nonna aveva un negozio, poi ereditato da mio padre, che si chiamava Utama. Era un bazar di cose per la casa. Mio padre stesso, infatti, l’ha suggerito e ci è subito sembrato perfetto. Non poteva che essere questo, il titolo.

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Utama - Le terre dimenticate

  • Anno: 2022
  • Durata: 87'
  • Distribuzione: Officine Ubu
  • Genere: Drammatico
  • Nazionalita: Bolivia, Uruguay, Francia
  • Regia: Alejandro Loayza Grisi
  • Data di uscita: 20-October-2022