‘Il portiere di notte’ su Mubi il film scandalo di Liliana Cavani
Dal 21 Gennaio entra a far parte del catalogo Mubi il film più famoso della regista italiana, opera capostipite di un sottogenere che avrebbe fatto molto discutere negli anni a venire
Dal 21 Dicembre 2022 è disponibile per gli abbonati a Mubi il film scandalo di Liliana Cavani, Il portiere di notte (1974) che a suo tempo divise platee e critica, non solo nel giudizio meramente qualitativo dell’opera, ma anche e soprattutto per quanto riguardava la rappresentazione dell’Olocausto e le tematiche affrontate, da molti considerate assolutamente immorali.
Quinto e più famoso film della Cavani – assieme alla Wertmüller il nome più famoso, sia in patria che all’estero, fra quelli delle registe italiane – vede come protagonisti la coppia Dirk Bogarde e Charlotte Rampling, già apparsi insieme ne La caduta degli dei di Visconti. Come principale antagonista alla perversa storia d’amore fra i due, c’è poi un freddissimo Philippe Leroy, nei panni del capo della congrega di nazisti sotto falsa identità.
Il portiere di notte La trama
Siamo nella Vienna del 1957. Maximilian, il portiere notturno di un lussuoso hotel della città, nasconde un terribile segreto: durante la seconda guerra mondiale indossava la divisa da ufficiale nazista all’interno di un campo di concentramento, dove, a quanto pare, conduceva operazioni sui prigionieri che gli avevano fatto guadagnare la fama di “dottore a cui nessun paziente sopravviveva”.
Nessun paziente a parte uno, ovvero Lucia, ragazzina con la quale aveva instaurato un rapporto morboso basato sul gioco di potere fra prigioniera ed aguzzino, un rapporto molto probabilmente dettato dalla più tipica Sindrome di Stoccolma.
Ma un giorno Lucia riappare nella hall dell’hotel, e per entrambi è come riconciliarsi con un grande amore che si credeva perduto per sempre. La loro relazione riacquisisce fin da subito le dinamiche sadomasochistiche che l’avevano da sempre caratterizzata, con la variante che però questa volta Lucia potrebbe benissimo denunciare il suo amante-padrone e rivelarne la reale identità.
La cosa non sembra preoccupare Max, certo dell’assoluta fedeltà della sua “bambina”, ma non la pensano allo stesso modo Klaus (Philippe Leroy) e tutti gli altri nazisti sotto falsa identità che si riuniscono nell’albergo. Max e Lucia si ritroveranno quindi barricati all’interno del loro appartamento, impossibilitati a uscire a causa dei mirini costantemente puntati alle loro teste.
L’altra faccia della nazisploitation
Gli anni ’70 furono il decennio del cinema d’exploitation, film di genere a basso costo e per la maggior parte considerati prodotti di serie B, che si distinsero per l’ampia rosa di sottogeneri a cui diedero vita. Fra questi il filone più controverso fu, a buona ragione, quello della cosiddetta nazisploitation. Diretto discendente di un altro sottogenere erotico dalle tinte spesso sadomasochiste, il women-in-prison, la nazisploitation si proponeva come un’improbabile miscela di erotismo e nazismo, con film in genere ambientati all’interno dei campi di concentramento e capaci di decise virate allo splatter.
Non solo molti degli esponenti più famosi di questo sottogenere sono produzioni italiane – come La svastica nel ventre (1977) di Mario Caiano o L’ultima orgia del III Reich (1977) di Cesare Canevari – ma il nostro paese è anche quello che ne ha inaugurato l’inizio. La particolarità di questi primi prodotti era quella di essere però opere ben distanti dai pastiche di serie B per cui il genere è dai più conosciuto, tutti estetica nazi-chic e violenza grottesca, ma si trattava anzi di pellicole impegnate, politiche, figlie di autori affermati piuttosto che di semplici mestieranti del genere. L’anno fondamentale per l’affermazione del filone fu senza dubbio il 1976, durante il quale uscirono Salò e le 120 giornate di Sodoma di P. P. Pasolini e Salon Kitty di Tinto Brass.
Ma poco più di un anno prima Il portiere di notte aveva già aperto le porte al connubio fra erotismo e nazismo, e la Cavani fu la prima a filtrare lo scandalo attraverso uno sguardo autoriale, diventando l’indiscutibile antesignana del genere.
Autorialità e sadomasochismo
Il portiere di notte non si limita a mescolare due cose apparentemente lontane come l’erotismo e il nazismo, ma propone una miscela di ulteriori generi. Nel film trova spazio il thriller, lo spionistico, ma anche il melodramma. La storia d’amore fra i due protagonisti è tormentata e sofferta; vive aggrappata a un passato di cui è possibile dimenticarsi ma che è anche impossibile replicare nel presente, dando origine a un livello di malattia tale da farci dubitare che di storia d’amore si possa effettivamente parlare.
E anche la tenerezza che a volte Max sembra mostrare nei confronti di Lucia – la chiama la “sua bambina” – non è altro che parte integrante di quel rapporto padrone-sottomessa nato e costruito durante la prigionia. Lui di questo non sembra esserne minimamente consapevole, intrappolato com’è nell’illusione che quella che sta vivendo sia ancora più di una storia romantica, ma sia perfino “biblica”. Lucia invece sembra a volte rendersi conto di quello che non è altro che il proprio disturbo. Ma non le importa, non fa nulla per scappare e resta incatenata al letto di lui, traendo piaceri e sofferenze da quel trauma a cui, sa, è impossibile fuggire.
Sotto questo punto di vista la trama può essere anche vista come metafora di un trauma irrisolto, impossibile da superare, quello dell’Olocausto, che marchia indelebilmente la mente di Lucia, rinchiudendola in un campo di concentramento da cui non potrà mai davvero uscire. Scampata all’orrore nazista e abituatasi ad una vita agiata e ricca, Lucia tornerà a rinchiudersi in una stanza d’hotel con Max, trincerata per proteggersi dagli ex-colleghi di lui, di nuovo isolata dal mondo in compagnia esclusiva del suo aguzzino.
Se il fulcro del film è il legame fra Max e Lucia, il film concede ampio spazio anche alle vicende riguardanti l’uomo e i suoi rapporti con la cerchia di ex-nazisti e collaboratori sotto falsa identità che cercano di scappare alla giustizia e, in certi casi, al senso di colpa per i crimini commessi. Queste trame secondarie non appartengono però solo al genere noir-spionistico, ma passano anche attraverso la lente dell’approfondimento psicologico; altra scelta tutt’altro che scontata in un tempo in cui i nazisti nel cinema venivano totalmente disumanizzati.
I nazisti che ruotano attorno all’hotel appaiono come reietti, fantasmi che si muovono annoiati ma anche spaventati dalla persecuzione a cui ora loro sono sottoposti. Ma a differenza degli altri ex-ufficiali, Max non è fiero del ruolo assunto durante la guerra; anzi come lui stesso ammette se ne vergogna. Per questo ha scelto di fare un lavoro umile, la notte, lontano dalla luce del sole. “Io mi vergogno di stare alla luce del giorno” dice ai suoi ex-colleghi. Una frase che nonostante tutto non riesce a sembrare una reale ammissione di colpa, ma sottolinea ulteriormente la sfaccettatura di un personaggio incoerente e tormentato, per cui a volte si può perfino arrivare a provare una certa pena.
Ed è forse proprio in quest’ultimo aspetto che risiede il maggior scandalo: empatizzare e trovarsi dalla “parte” di un uomo terribile, responsabile di atti atroci ma anche estremamente debole; parteggiare per il rapporto malato con la sua vittima d’elezione perché anche noi, in quanto spettatori, coinvolti nell’illusione d’amore in cui sono caduti i due protagonisti.
Il portiere di notte: Reale e onirico
La regia essenziale, fatta di piani fissi e mossa da panoramiche e zoom piuttosto che da carrellate o movimenti complessi, assieme alla fredda fotografia di Alfio Contini, rende l’hotel in cui si ambienta la maggior parte della vicenda un luogo desolato, quasi sospeso, in cui coloro che hanno una falsa identità si ritrovano bloccati ad espiare le proprie colpe in una vita monotona e priva di significato apparente.
Ma se nella narrazione al presente tutto ciò è relegato all’atmosfera, mentre la messa in scena rimane ancorata al puro realismo, nei flashback si sfonda la barriera della realtà e riviviamo il passato per come lo ricorda Max. Qui la macchina da presa acquisisce maggior dinamicità e le luci assumono colori meno naturalistici, fino a raggiungere l’apice onirico (che farà da partenza per tutta l’estetica nazisploitation da lì a venire) della sequenza in cui la Rampling, seminuda in bretelle e berretto da ufficiale, canta e danza per Max e gli altri soldati, finché lui non le consegna la testa del prigioniero che l’aveva infastidita.
Invece che rappresentare con crudo realismo l’orrore all’interno del campo, la regista sceglie di porre l’accento sulla desolazione nel presente, su quelle che sono le ferite lasciate dalle atrocità del nazismo. Nei flashback assistiamo ad una realtà travisata: è la mente contorta del protagonista che ricorda quei momenti disumani come una situazione idilliaca e magica, esattamente come farebbe un innamorato che contempla i momenti migliori passati con la propria amata.