Venezia .68: “El Campo” di Hernàn Belòn: un esordio bucolico e assopito (Settimana della Critica)
“El Campo” impone allo spettatore di abbandonare la fascinosa illusione creata dal cinema di poter scavalcare spazi e tempi, recuperando a forza, proprio come i protagonisti, quei ritmi rallentati e in diretto contatto con l’ambiente trasmessi dalla campagna
Nella campagna poco lontana da Buenos Aires, un giovane coppia e la loro bambina si trasferiscono per staccare la spina dai ritmi frenetici della città e del lavoro. La casa dove alloggiano però, fascinosa quanto decadente, muove nell’animo dei due reazioni diametralmente opposte: Santiago (Leonardo Sbaraglia) rimane catturato dall’aspetto rustico e dal pacifico isolamento, che lo avvicina al suo ideale di famiglia perfetta; Elisa (Dolores Fonzi) invece viene immediatamente spaventata dai rumori, dagli spazi e dalla gente che circonda il castello decadente che la ospita.
Questa timorosa diffidenza, esaltata da tonfi sconosciuti, scricchiolii e ombre inspiegate, potrebbe essere un regolare inizio per un classico film di paura. In realtà la dimensione spettrale dell’ambiente è totalmente annullata in favore dei ritmi di coppia dei due appassionati sposini. Il trasferimento infatti, sgretola progressivamente le sicurezze del rapporto tra i due, veemente e focoso, facendo emergere, in Elisa soprattutto, una emotività insicura, alle soglie della nevrosi.
Seguendo quindi questa madre inquieta, questa compagna egoista e poco disponibile ai cambiamenti che Santiago le propone, l’argentino Hernan Belon racconta la sua prima storia di fiction nonché la sua opera di esordio sul grande schermo. La dimensione quotidiana è pregnante, i ritmi così lenti e le attività così normali da sfiorare la banalità: El Campo impone allo spettatore di abbandonare la fascinosa illusione creata dal cinema di poter scavalcare spazi e tempi, recuperando a forza, proprio come i protagonisti, quei ritmi rallentati e in diretto contatto con l’ambiente trasmessi dalla campagna.
La scelta registica quindi cade sulle lunghe sequenze, riflessive, sulle attività piccole e quotidiane, sul vento, sulla pioggia, sulla polvere. Ciononostante, il lato bucolico ha ben poco fascino poiché non ci è dato mai di interpretare questo viaggio dal punto di vista di Santiago, che vorrebbe realizzare il suo sogno, ma verrà strappato da questa dimensione naturale; nei colori, nei suoni, permea l’inquietudine irrisolta di Elisa, e così anche la campagna è secca, brulla, uggiosa, fredda, noiosa e ripetitiva. È talmente forte il sentimento trasmesso che anche allo spettatore non è offerta una visione facile, ma scomoda e appesantita dalla lentezza cauta degli avvenimenti.
Il feroce riassunto del percorso compiuto dai protagonisti è affidato all’anziana vicina, già di disturbo alla vita di Elisa per la sua invadenza ospitale. Questa ci ripete che non c’è soluzione all’inettitudine che ha colpito Elisa: bisogna per forza vivere, non c’è scelta.