Sale sul palco della Sala Debussy a Cannes – dove si proiettano le opere di Un Certain Regard – una ragazza magrissima, dai capelli rossi: è Kira Kovalenko, la trentunenne regista del commovente dramma familiare Razzhimaya Kulaki (I pugni disserrati), risultato poi vincitore dell’intera sezione. Lei, delicata ma decisa, ringrazia il maestro Alexander Sokurov, per averla ispirata durante un laboratorio di regia tenuto a Nalchik, nel Caucaso, città natale della futura regista. E racconta di aver ambientato il suo film proprio nella sua città d’origine, nell’Ossezia del Nord, perché ama questo posto dalle ‘verità difficili’, che è la sua patria. Il film è stato prodotto dal produttore ucraino-russo Alexander Rodnyansky con Sergey Melkumov.
I pugni disserrati: aspettando la vita alla fermata del bus
Incontriamo Ada, la protagonista del film – interpretata dall’intensa attrice russa Milana Aguzarova – fin dalle prime scene, mentre attende qualcuno o qualcosa alla fermata del bus, lungo la strada principale della città mineraria di Mizur, infagottata in abiti maschili e delusa dal mancato arrivo di chicchessia. Nel frattempo si presentano altri due personaggi, un ragazzo dai capelli rossi Tamik che scherza con Ada e vuole portarla a fare un giro col suo camioncino, ed il fratello piccolo della ragazza, Dakko, che agisce in maniera istintiva, un po’ selvatica, e cerca in tutti i modi di riportarla a casa.
Presto si comprenderà parte del dramma di Ada. La sua vita è bloccata fra un padre malato, che le ha nascosto i documenti per non farla partire, un fratello minore che richiede la sua attenzione come un bambino, e una limitante ferita ‘interna’ all’addome (il padre, nel suo egoismo, non vuole che esca dal paese neppure per farsi operare), causata dallo scoppio di una bomba, lo stesso in cui la madre rimase uccisa, evento originario dei traumi dell’intera famiglia.
Ada è dunque prigioniera di una vita statica e soffocante e di un dilemma interiore: se l’amore per il padre e i fratelli la frena da una ribellione totale, il dolore può trasformare questo sentimento in odio, mentre la speranza di una vita indipendente sembra sfumare. Almeno finché a quella fermata non comparirà il fratello maggiore, Akim, da anni trasferitosi a Rostov, da cui Ada attende salvezza e forse giustizia.
Laboratori di cinema nel Caucaso
Se non fosse stato per Sokurov, Kira non avrebbe mai intrapreso la carriera di regista. E quel laboratorio svoltosi proprio lì, ai piedi delle montagne (cui partecipò anche Kantemir Balagov, regista di Beanpole, acclamato a Cannes 2019) aveva lo scopo, secondo la regista, “di mettere il Caucaso settentrionale sulla mappa cinematografica del mondo” perché anche in un luogo disgraziato e remoto come Nalchik in Nord Ossezia, la settima arte trovasse giovani talenti per raccontare dal di dentro quei luoghi abitati dal dolore della perdita e della guerra, e i sentimenti dei giovani in cerca di una vita migliore e meno rischiosa.
«Sokurov era severo ed esigente e spesso era difficile per noi soddisfare le sue richieste – ha raccontato la regista – voleva che gli mostrassimo noi stessi, il nostro modo di amare, di vivere, di avere relazioni, voleva che osservassimo cosa accadeva nelle nostre famiglie e nel mondo che ci circonda.»
Di certo Kira ha perseguito questo compito con perseveranza e intelligenza, declinando quel modo di raccontare, appreso da un maestro, con uno stile personale e femminile, come nell’immagine dei pugni chiusi che, a poco a poco, si disserrano, aprendosi al mondo o nell’esposizione del primo goffo rapporto sessuale, avvenuto nell’emporio dove Ada lavora, che disvela realtà ancora ignote alla protagonista, aprendo finestre dentro cui i personaggi e i loro misteri prendono forma e si manifestano a poco a poco.
Una patria difficile, da amare e raccontare
Se il primo lungometraggio di Kira, intitolato Sofichka, era ambientato in Abkhazia sul Mar Nero, un territorio conservatore a prevalenza musulmano, nella sua opera seconda, I pugni disserrati, che le ha meritato il Premio Un Certain Régard a Cannes 2021, la regista torna a casa, cercando di raccontare il luogo dove è cresciuta e si è formata, attraverso una storia rappresentativa di un mondo ancora chiuso e inclemente, dove l’autorità paterna è spesso quella di un padrone indiscusso e la mentalità del silenzio è diffusa fra la gente.
«Non credo ci siano cose che, come regista, io non possa dire – afferma la cineasta – di certo il Caucaso settentrionale è un luogo in cui alla gente non piace parlare dei propri problemi, come ad esempio quelli che analizzo nel mio film. Ma sento di amare davvero questo posto, perché questa è la mia patria, e credo sia necessario confrontarsi anche con le verità difficili, dunque mi sento a mio agio anche a parlare dei problemi della mia terra».