Già da qualche tempo si segnala fra i rivoli del cinema a stelle e strisce una certa propensione a volgere lo sguardo indietro, al periodo che va dalla fine degli anni sessanta ai primi anni settanta.
Il primo nome che viene in mente è quello di Quentin Tarantino, con il suo C’era una volta ad Hollywood che tra l’altro a fine giugno uscirà in versione romanzesca per le edizioni de La Nave di Teseo.
Non è una cosa nuova per registi e scrittori americani, volgersi indietro a riflettere su passati momenti della storia della settima arte. Anzi è ormai una significativa consuetudine, specie, va segnalato, nei momenti di ristrutturazione quando cioè gli studios cambiano i loro assetti industriali e di conseguenza il loro modo di produrre film.
E’ accaduto ad esempio nei primi anni settanta, quando film ma anche romanzi e saggi critici, cercavano di ripercorrere le gesta di quella che oggi comunemente ricordiamo come l’età dell’oro.
Pellicole come Il giorno della locusta (1975) di John Schlesinger, Gli ultimi fuochi (1976) di Elia Kazan, tratto nientemeno che da Scott Fitzgerald, ma anche, appunto, gli affondi di Gore Vidal, i gialli di Stuart Kaminsky, le interviste di Peter Bogdanovich.
Questa tendenza è sicuramente in atto anche oggi, il focus è ovviamente traslato, dagli anni trenta-quaranta alla fine degli anni sessanta, primi anni settanta, quando il vecchio sistema degli studios entrò in crisi in modo definitivo e i giovani mavericks che lo avrebbero rigenerato (Coppola, Scorsese, Lucas, Spielberg) stavano ancora affilando le unghie.
Tra i tanti spunti contenuti nel film di Tarantino, a metà strada tra reinvenzione fantastica e millimetrica ricostruzione di un’epoca e di un clima, c’è anche un tentativo di ricostruzione dell’agguato dei famigli di Charles Manson a Sharon Tate, la compagna di Roman Polanski, trucidata assieme ad altri amici il 9 agosto ’69 al 10050 di Cielo Drive, Beverly Hills.
Per alcuni il massacro di Cielo Drive segna anche un cambio di clima generale, la cosiddetta fine dell’innocenza, delle illusioni negli ideali di pace ed amore protagonisti della Summer of Love. Per altri in quel drammatico fatto di sangue c’è la dimostrazione di un destino ineluttabile che avvolge Los Angeles.
Pochi anni dopo però proprio attorno a quella città, crocevia di seduzione e allo stesso tempo di perdizione, proprio Polanski dedica il suo capolavoro forse più mitico, Chinatown, oggetto di un libro imperdibile, uscito in queste settimane per le edizioni Jimenez, Il lungo addio. Chinatown e gli ultimi anni di Hollywood (pp. 395, € 20), di Sam Wesson, del quale in Italia è stato tradotto un altro mirabile saggio-romanzo dedicato ad Audrey Hepburn e Colazione da Tiffany (Colazione con Audrey, Rizzoli 2011).
Oltre a Polanski, i protagonisti de Il lungo addio sono Jack Nicholson, Robert Towne, lo sceneggiatore, e il produttore, Bob Evans. Quattro uomini di cinema che con Chinatown danno non solo un impulso decisivo alla propria carriera, ma creano fra di loro un sodalizio che li legherà per molti anni.
Sam Wesson ha la rara capacità di ricostruire con freschezza la gestazione del film, seguendone passo dopo passo tutte le fasi, dalla scrittura al set e così via.