La serie turca Ethos di Berkun Oya, sulla piattaforma Netflix, possiede una cornice circolare: finisce, dopo otto episodi, così com’è cominciata, lasciando aperto appena un piccolo spiraglio per altre, possibili avventure. Dell’anima, perché a tenere viva la nostra attenzione non sono i fatti, che, se pure lentamente, accadono, bensì la loro eco profonda in ciascuno dei personaggi. Come risuonano le circostanze che, incontrando percorsi di consapevolezza già avviati, diventano occasioni di cambiamento.
La vicenda, le vicende
Due mondi contrapposti. Il primo è abitato da Meyrem (Öykü Karayel) e dalla sua strampalata famiglia musulmana: il fratello nevrotico Yasin, la moglie depressa Ruhye, i loro bambini. E da un imam poco fantasioso, che a tutti somministra le stesse, insulse, parabole. Insieme a lui, la figlia, omosessuale, tutta presa dal suo avanzato processo di emancipazione.
Al centro del secondo ambiente, laico e progressista, troviamo le psichiatre Peri e Gulbin, insieme a un’attrice di serie tv, e un uomo irrisolto, che pensa di tenere a bada i problemi dedicandosi al sesso, abbastanza compulsivamente, sembrerebbe.
A scandire la narrazione, gli incontri terapeutici fra Meyrem e Peri. Le sedute procedono in maniera poco fluida, perché forti sono le resistenze della prima e sofferto il controtransfert della seconda. Eppure, quelle confidenze, ai nostri occhi non così intime, funzionano. Mentre gli altri personaggi si sfiorano, a volte senza conoscersi, a volte invece sì.
L’accoglienza di Ethos in Turchia
Ethos ha avuto un notevole successo in Turchia, suscitando nel contempo grandi polemiche. Un certo orgoglio nazionale non ha gradito le contraddizioni di questo racconto corale, che non risparmia proprio nessuno, con uno sguardo impietoso, che è al tempo stesso benevolo. Almeno, se si riesce a guardarlo oltre la superficie, con l’attenzione che merita. Perché è proprio dal conflitto che nasce il dramma, e la sua rappresentazione è così convincente da evocare lo stato del paese, rigidamente diviso in due, ma con la possibilità di riconciliarsi. Per questo, non vanno cercate le sfumature nei personaggi, assoggettati come sono al ruolo che li imprigiona; che, però, grazie agli incontri o agli eventi, può essere rivisitato e come per magia, sciogliersi.
Una strana relazione terapeutica
Meyrem, nel suo di ruolo, è deliziosa, mentre le sicurezze della tradizione stanno cominciando a non proteggerla più. Yasin non vuole che vada in terapia, la dottoressa è ben strana, ma lei, su quella misera sedia della sanità pubblica, comincia ad ascoltarsi. E a mettere in crisi le certezze di Peri. Proprio lei, una ragazza così semplice e, diciamolo, ignorante, che le sgrana gli occhi addosso, inconsapevolmente sfidandola.
Non deve essere semplice fare terapia nelle culture arabe (come dimostra la commedia Un divano a Tunisi), se si considera che la cura psicologica, per funzionare, necessità di completa libertà da giudizi e pregiudizi.
Peri invece, di famiglia colta borghese e laica, si scopre piena di ostilità nei confronti di Meyrem, ai suoi occhi ottusa, e a niente le serve andare in supervisione dall’altra esperta della psiche, la sua amica Gulbin.
Ci sarà, per fortuna, il momento dell’insight, non da parte della paziente come dovrebbe essere, bensì della terapeuta. Il processo di Meyrem invece è più lento, meno vistoso ed è sicuramente iniziato prima del racconto che noi vediamo sullo schermo. Se è vero che concedersi la terapia (a Instambul, poi!) significa aver intuito di averne bisogno e aver già avviato il lavoro su di sé. Per questo ci è tanto simpatica, perché lei, così naive, è la più saggia di tutti, nel riconoscere che i suoi svenimenti hanno un’origine psichica e come tali vanno affrontati.
Paradossalmente, Peri risulta molto più sprovveduta. Avrebbe dovuto leggere Creature di un giorno di Irvin Yalon, in cui lo psichiatra americano svela i segreti della cura: essere il più possibile autentici e affidare qualcosa di sé al paziente. In una relazione terapeutica descritta nel libro, succede proprio questo, che lo psichiatra di fama internazionale, Yalom, ha qualche cedimento, che si rivelerà efficacissimo per la terapia. Se avesse letto Creature fragili, forse Peri, lei, sì, creatura fragilissima, avrebbe imparato ad ammorbidirsi un po’, ad affrontare la paura del vuoto dietro la protezione della maschera, che sta per cadere in frantumi.
I tanti temi trattati in Ethos
Se queste debolezze vogliono essere la metafora di un paese che non riesce a fare pace con se stesso, Berkun Oya è riuscito a renderlo benissimo. Con una narrazione che a tratti si dilata o si contrae, sorprendendoci, e scene che racchiudono tutto il sentire umano: segreti e bugie, fughe e adattamenti, perdita e conquista, dolore e ricerca di conforto. Drammi familiari, solitudini e nuovi amori.
Comicamente, un elemento accomuna i personaggi e ci viene svelato quando la macchina da presa scende fino a inquadrarne i piedi. Sono le ciabattine ridicole che indossano tutti (a rivelare, nella quotidianità domestica, quanto siano indifesi). Persino il viveur, lo sciupafemmine, l’uomo presso il quale Meyrem fa le pulizie e del quale è innamorata.
Adorabile quando devia il discorso ogni volta che Peri cerca di farlo cadere su di lui. Come a ribadire chi decide quando, e fino a che punto, ci si può spingere nell’intimità delle sedute.
Dialogo soprattutto al femminile
È un dialogo tra donne, comunque, quello di Ethos. Gli uomini contano davvero poco, sminuiti come una battaglia persa. “Preparami un tè”, dice bruscamente il fratello di Meyrem per esercitare la sua autorità. E lei: “Ti preparo un tè?” per rabbonirlo, quando non lo regge più, quando la comunicazione s’inceppa più del solito. Eppure anche loro, i maschi, ostinati più che mai, vivono un cambiamento, funzionale dal punto di vista narrativo.
Resa cinematografica della serie
Tutti i personaggi e tutti i momenti sono resi all’interno di inquadrature studiatissime, colori pastello che ricordano quelli di Suleiman o ancora più accesi alla Kaurismäki , comunque molto curati. I panni stesi, un parco giochi abbandonato, la facciata di una casa popolare. Tutti i luoghi sono meritevoli di una fotografia che li faccia ricordare, come l’albero di cachi davanti alla casa di Meyrem. Location che si ripetono, insieme ai frammenti del racconto, dando una scansione lenta, un ritmo ciclico che rassicura. I giorni si ripetono alla stessa maniera, suggerendo una fissità che viene via via smentita dagli sguardi sempre più consapevoli, soprattutto quello di Meyrem.
Una cosa soltanto è diversa a ogni episodio: la chiusura. Due o tre volte è la struggente canzone in arabesk di Ferdi Özbeğen (in un video turco degli anni Ottanta).
Una puntata finisce con riprese molto belle sui visi e sul traffico della città; altre ancora semplicemente con i titoli di coda. Saltata del tutto la sigla dell’inizio, per andare diritti all’essenziale fin da subito.
Bir Başkadır, il titolo originale
Interessante sapere che Ethos in Turchia ha tutt’altro titolo: Bir Başkadır. Significa “é un’altra cosa” o “è tutt’altra cosa”. La serie è davvero diversa, originalissima anche per noi, chissà quanto rispetto a quelle che vanno per la maggiore in Turchia. Spesso in casa di Meyrem si parla mentre la tv trasmette i dialoghi degli attori, che si sommano, si confondono, si sovrappongono alle battute tra lei e i suoi familiari. Racconti altri, rispetto a quello che stiamo vedendo, piccoli schermi che trasmettono storie ancora diverse. Si colgono conversazioni da telenovela che appassionano i nostri personaggi; i quali, anche se non sempre ce ne accorgiamo, sono alla ricerca di un discorso più autentico con se stessi.