Waiting for the Barbarians la recensione del film di Ciro Guerra
Le possibilità di una grande produzione di lingua inglese non giovano al cinema di Ciro Guerra: Waiting for the Barbarians ne ripropone temi e poetica senza però ritrovarne la visionarietà, ingabbiata dalla monumentalità della sua confezione.
Non è una regola ma capita sempre più spesso agli autori del cosiddetto cinema da festival di regalarsi la possibilità di accedere a un pubblico più numeroso e meno sofisticatodi quello a cui sono di norma abituati. Nella filmografia di Ciro GuerraWaiting for the Barbarians rappresentava una sorta di prova del nove per il fatto di affidare l’autarchia del proprio cinema alle possibilità economiche e alle capacità persuasive delle grandi produzioni di lingua inglese sebbene supportate da una folta componente italiana costituita dalla Iervolino Entertainment in fase di realizzazione, di Jacopo Quadri al montaggioe di Giampiero Ambrosi alle musiche.
Opportunità questa che Waiting for the Barbarians sfrutta innanzitutto sul piano del glamoure della visibilità per il poter disporre di volti e corpi dello star system hollywoodiano come lo sono Johnny Depp, Robert Pattison e Mark Rylance, archetipi di una storia che pur essendo ambientata alla periferia dell’Impero (quello inglese dei primi decenni del novecento?), ambisce ad essere una metafora dentro e fuori dal tempo: da una parte, raccontando il cuore di tenebra di un gruppo di personaggi impegnati con il buon senso– il magistrato/ Rilance – e con la sua mancanza – il colonnello Joll/Deep e Mandel/Pattison il suo brutale aiutante – a fronteggiare l’arrivo, vero o presunto, dei Barbari, ovvero delle popolazioni nomadi in movimento lungo la frontiera sul cui deserto si apre l’avamposto abitato dai protagonisti; dall’altra, nella guerra pretestuosa e inconcludente contro un nemico dai contorni imprecisati e addirittura inesistenti, evocazione dei grandi disastri bellici contemporanei sul tipo del casus belli fittizio sostenuto dall’amministrazione americana come pretesto per giustificare il coinvolgimento e il conseguente conflitto nel già tormentato scenario medio orientale.
Alla luce di quanto detto sul piano espressivo e contenutistico in Waiting for the Barbarians emerge, seppur nella continuità di un discorso allo stesso tempo allegorico e visionario tipico del cinema di guerra (El Abrazo della Serpiente, Oro Verde), l’incapacità di fare dell’incontro con l’altro e del rapporto ancestrale con il mondo naturale l’altrove vagheggiato dal regista nelle opere precedenti. Al Contrario Waiting for the Barbarians si fa apprezzare più per la bontà delle interpretazioni, corrette seppur in certi passaggi sin troppo tangibili, che per la monumentalità vistosa dei paesaggi, che contribuiscono a relegare il portato simbolico delle immaginiall’interno di un inaspettato didascalico, altresì tipico delle grandi produzioni internazionali. Il fatto di ascoltare buona parte della popolazione indigena esprimersi nell’idioma della lingua inglese la dice lunga sulla pervasività di un immaginario talmente standardizzato da informare di se anche le visioni più critiche che su di esso si erano esercitate nel tempo. Presentato alla 76ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia.
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