Takashi Miike nato il 24 agosto 1960 è un regista, sceneggiatore, attore e produttore cinematografico giapponese. Personaggio eclettico, controverso e prolifico è uno dei più talentuosi e originali cineasti del Sol Levante. Il suo curriculum spazia fra produzioni per sala, televisive e V-Cinema, vantando un curriculum di oltre 100 produzioni fra film ed episodi televisivi.
Takashi Miike: biografia
Takashi Miike nato a Yao, nella prefettura di Osaka, è figlio di un saldatore e di una sarta originari dell’isola di Kyushu. I suoi nonni, durante la Seconda Guerra Mondiale, scapparono in Cina e in Corea ritornando in Giappone solo al termine del conflitto. Da bambino passerà i suoi pomeriggi al cinema, diventando un fan entusiasta di Bruce Lee, di film catastrofici e dello spaghetti western. Eccellente giocatore di pachinko, da adolescente è appassionato di motociclismo.
Dopo essersi diplomato decide di frequentare la scuola di cinema e televisione Yokohama Eiga Semmon, ma dopo una settimana smetterà di seguire le lezioni, ottenendo così un lavoro in un pub frequentato da soldati statunitensi. Assunto poi come collaboratore per una serie tv intitolata Black Jack, lavora nel piccolo schermo per ben dieci anni, fino a quando non viene promosso ad aiuto regista di Shôhei Imamura nel film Zegen (1987).
Successivamente lavorerà con altri autori tra cui: Toshio Masuda, Kazuo Kuroki, Ngai Kai Lam, Biao Yuen, Shuji Goto e Hideo Onchi. Alla fine degli anni ottanta, tenterà un percorso attoriale, sempre in un film del mentore Imamura: Pioggia nera (1989). Percependo che questa non è la sua strada, preferisce dedicarsi solo ed esclusivamente, all’arte della messa in scena. Sporadicamente torna davanti all’obiettivo, soprattutto per esaudire particolari desideri di colleghi che lo stimano, come Eli Roth che lo ha voluto in un piccolissimo ruolo del suo Hostel (2005) con Jay Hernandez e Derek Richardson.
Il V-Cinema
Per quanto indisciplinato Imamura promuove il suo pupillo Miike perché gli sia data l’opportunità di poter mostrare le sue vere capacità. I produttori, amici di Imamura, vogliono credere al regista e amico proponendo a Miike di girare alcune pellicole per il mercato dell’home video. Inizia con il film d’azione Toppuu! Minipato tai – Aikyacchi Jankushon (1991); passati soli due mesi, è nuovamente a lavoro con Redi hantaa – Koroshi no pureryuudo (1991), sostituendo Toshihiko Yahagi.
Per i finanziatori, Takashi Miike si rivela abile in quello che gira, gli consegneranno quindi altri soggetti del sottogenere Yakuza film. In modo frenetico ne dirige in media cinque o sei l’anno interpretati, soprattutto, da Megumi Kudô e Hiroyuki Watanabe, imponendosi così come l’erede di Kinji Fukasaku e Seijun Suzuki, veri e propri pilastri del genere, aggiungendo però quella che sarà una delle sue cifre stilistiche: la violenza. Miike può inoltre contare sul fatto che, raramente la censura si abbatta sugli home video e i produttori tendono a lasciare maggiore libertà creativa.
Takashi Miike e la Black Society Trilogy
Dopo la produzione televisiva si dedica alla creazione della trilogia conosciuta con il nome di Black Society trasposta per il grande schermo solo in un secondo tempo. Della trilogia fanno parte: Shinjuku Triad Society (1995), Gokudô kuroshakai (1997) e Ley Lines (1999). I tre film narrano vicende di mafia cinese in opposizione a quella giapponese. La storia inizia con il boss taiwanese omosessuale Wang Zhiming che, arrivato a Tokyo, cerca di prendere contatti con gli yazuka locali per gestire un traffico di organi, ma le cose non andranno per il verso giusto. La storia prosegue fino a Yuji uno yakuza locale, costretto a fare il killer per la mafia giapponese; morto il suo capo e con un grande senso di vendetta, dovrà conciliare il suo “lavoro” con la scoperta di essere padre di un bambino.
Da queste premesse cominceranno a delinearsi quelli che saranno i primi temi della sua filmografia: i vecchi e stanchi criminali sostituiti da una nuova generazione e l’estrema difficoltà a integrarsi con un’identità di origini non giapponesi, il tutto scandito da una forte violenza che vira sullo splatter, l’omosessualità e una forte componente ironica.
La trilogia getterà i semi che contraddistinguono il suo stile costituito da un montaggio veloce, inquadrature che esitano a non allontanarsi dalla violenza brutale una musica incalzante, il tutto scandito da una sceneggiatura attenta e umoristica. La prima pellicola sarà proiettata per pochissimi giorni in un solo cinema di Tokyo, ma data l’affluenza di pubblico si decise di quadruplicare la proiezione dei film nelle sale. Quentin Tarantino, che non ha mai esitato a dichiarare la sua stima per il cineasta giapponese, amerà a tal punto la trilogia da omaggiarla nel suo Kill Bill vol. 1 (2003).
Takashi Miike e la trilogia Dead or Alive
Il mondo scopre Takashii Miike nel 1996 con Gokudô sengokushi: Fudô. Comincerà così quella tipica sperimentazione e commistione di vari formati, generi e giochi con la drammaturgia. A cavallo fra il 1999 e il 2002, con un attivo di ben 10 film, fra i quali spicca la trilogia Dead or Alive interpretata da Sho Aikawa e Riki Takeuchi.
La trilogia si distingue per essere contraddistinta da toni violenti e forti momenti sentimentali, testimoniando la grande versatilità e la tendenza all’eccesso del regista: sequenze montate rapidamente con echi al videoclip, sodomizzazioni, omicidi e droga. Il tutto si dimostra eccessivamente anticonvenzionale, surreale, splatter, onirico e surreale; insomma una vera apoteosi di “sorprese” poco gradite ai produttori.
Chi è Takashii Miike?
A primo impatto il regista giapponese può essere facilmente considerato come un outsider-critico, di forme e modi della cultura Giapponese contemporanea. Miike si dimostra, con grande freschezza, abile a rappresentare la patina di convinzioni che contraddistinguono quella società; sempre più dominata da una mescolanza nazionale e culturale. Quel che affascina nel sua cinema è il percorso narrativo che, nonostante i personaggi del tutto inverosimili, recupera dei modelli tradizionali.
La realtà rappresentata soprattutto nelle situazioni marginali, ci offre un luogo in cui abitare che diventa prepotentemente reale. Obbliga a mettere in discussione ed a far riflettere sulla vita quotidiana, verso derive di orribili deformazioni che ha subito senza nemmeno accorgersene. Questa sua caratteristica è ancora più marcata dal fatto, quasi paradossale e ossimorico, che seppur sia un cinema intriso di riferimenti a manga o alla science-fiction, ha sempre un corrispettivo concreto: evidenziato ancor più da un quasi totale rifiuto per il digitale a beneficio dell’analogico.
Uno delle tematiche che emerge con prepotenza nel suo cinema, è sicuramente il trattamento del paradossale verso una deriva grottesca, mai ironico o sprezzante; piuttosto è un termometro per evidenziare una situazione diffusa. Tutti i film di Miike affrontano, difatti, un problema molto semplice: la trasmissione di un sapere, sia esso trattato in maniera diretta o mediato come la morte – il coito o il duello; diventando espressioni di incontro e scambio. La perenne contrapposizione fra solitudine dell’uomo e solidarietà del gruppo, costituiscono una buona parte della sua poetica.
Lo stile frenetico in Takashi Miike
La base del suo cinema è dominata da una certa solidità strutturale, opposta alla scelta dello stile utilizzato. Miike dimostra così un talento visivo eccellente nel fagocitare e nel contaminare generi, tipologie e figure agli antipodi: neo-noir, commedia, horror, melò, action-movie e gangster; sono questi difatti solo alcuni dei generi con cui il regista lavora testimoniando una natura, decisamente, eclettica.
Per fare questo recupera un’estetica post-moderna con la ferma volontà di adesione verso un reale, le cui forme appaiono sempre più confuse, contrastanti e multi-linguaggio. Miike utilizza la macchina da presa in tutti i modi possibili e immaginabili: primissimi piani, inquadrature lunghe, simmetriche e subito dopo sbilenche, spostandosi con grande rapidità da scene frenetiche quasi da videoclip musicali (tipiche degli incipit dei suoi film), a quelle fisse con piani sequenza lentissimi. Lo stile della contaminazione spinto verso l’eccesso e l’inverosimile, si dimostra un espediente fondamentale per dare una struttura “organizzata” del reale.
Caprendiamo bene come il suo universo sia dominato da personaggi assolutamente straordinari: mezzi uomini e mezzi robot, insensibili al dolore, incapaci di provare compassione o piacere. I suoi film si fanno così estremamente antropologici descrivendo un universo totalmente disumanizzato, abitato da esseri “sovrumani”, in cui tutto si fa disfacimento. Le opere di Miike non si fanno epiche, ma piuttosto recuperano toni lirici facendosi decisamente più intime; lo dimostrano le numerose scene girate in interni o nelle oasi fuori dalla città. Miike si direzione quindi verso una sorta di recupero: una nuova concezione di educazione-sentimentale in un moderno Giappone dal cuore di ferro.
Le tematiche nel cinema di Takashi Miike
Varie le tematiche che ritroviamo nei film del regista giapponese, data anche la sua innegabile dimensione poliedrica ed eclettica.
La felicità è sicuramente uno degli argomenti più presenti e allo stesso tempo effimeri del suo cinema. Per Miike questo sentimento appartiene, come lui stesso ha dichiarato in varie interviste, alla sfera del sogno. Cio è evidenziabile in Fudoh: The New Generation (1996) in cui Mika, la ragazza ermafrodita che, possedendo entrambi i sessi e dando per assunto che la felicità la si ottiene con l’identificazione con uno di essi, qui viene del tutto a mancare. Dall’altra parte anche in Rainy Dog (1997) in cui un padre impegnato con un’idea pedagogica che includa l’insegnamento di tutti gli aspetti della vita, compresa la morte, cozzi con l’ideale di “famiglia felice” giapponese in cui si precludono ai figli tutti quegli aspetti più turpi e difficili della vita.
Necessario per un regista nato a Osaka, abituato fin da bambino alla contaminazione culturale, è il mettere in scena il rapporto fra varie culture che convivono in Giappone o nei paesi limitrofi. Miike vuole così staccarsi da un prodotto di successo ingabbiato in stereotipi, ma allarga la forbice e propone l’interazione fra personaggi di diverse culture, impedendo così a chi guarda un’identificazione fissa o affine.
I personaggi sono sganciati da ogni tipologia di schema e il regista è perfettamente consapevole di quanto ognuno di noi inserito in un contesto sociale, dal quale subisca le influenze. Per ricreare sullo schermo questa dinamica, “sciocca” i suoi attori lasciandoli sprovvisti di direttive e del tutto ignari di quali tipi di reazioni devono avere in particolari momenti del film. In questo modo accade quella che potremo definire come una spinta innescata dalla stessa reazione spontanea dell’attore. Questo comportamento, da un lato, può portare a qualcosa di molto diverso da quello che il regista si aspettava e, dall’altro, può annullarsi: poco importa il risultato; quello che interessano sono piuttosto i rapporti e le influenze della società così del tutto stemperate che si trasformano piuttosto in un effetto diverso per ognuno e su ciascuno di noi.
Violenza, amore e la critica di misoginia
«Durante le riprese, la violenza significa amore e armonia. Durante le riprese dei miei film, nessuno si è ferito gravemente. La cosa curiosa è che più l’amore è grande, più aumenta la violenza. Ultimamente ho il dubbio che proprio dall’amore nasca la violenza. In altre parole, sono la stessa cosa».
La frase è davvero esaustiva dell’aria che si respira durante la visione dei suoi film, sembra proprio un’operazione matematica nella quale, all’aumentare dell’amore fra i personaggi, aumenti proporzionalmente anche la violenza. Questa concezione va ben oltre la dimensione in cui amore si fa possessione e la possessione diventa violenza: la tematica è estremamente più profonda, ancestrale, tipicamente umana e per questo antropologica. Il riflettere sulla violenza diventa poetica visiva, sembra quasi paradossale affermare che atti violenti come tagli, lacerazioni, decapitazioni, stupri siano Arte in movimento.
Eppure nel suo cinema tutto quello che avviene si fa istintivo e crudele. Miike sembra dirci che anche attraverso la violenza l’uomo possa realizzarsi: emblematico in questo senso è sicuramente Ichi the Killer (2001). La violenza pervade ogni singola scena, spaziando fra decine di torture differenti con spilli, olio bollente, sbudellamenti e chi più ne ha più ne metta. Miike sfrutta ogni suo mezzo a disposizione per rappresentare tutto ciò, dal trucco alla computer grafica (utilizzata in una sola occasione) che seppur pessima visivamente, accentua l’anarchia totale di un regista che non bada minimamente a certi dettagli.
Il concetto di amore e violenza è molto importante ed è centrale in questo film; basti vedere come Kakihara e Ichi siano due persone alla ricerca dell’amore, in tutte le sue possibili accezioni. Il regista, da bravo orientale, è pienamente consapevole che non ci sono buoni o cattivi nel film e sa benissimo come gli uomini siano entrambi; elemento questo evidenziato anche dallo stesso sviluppo narrativo in cui i ruoli del cacciatore e della preda, dell’assassino e della vittima si confondono. Miike estrapola dai suoi personaggi quante più sfaccettature possibili dell’animo umano, del loro rapporto con la violenza, con il piacere e con la sofferenza. I due personaggi a prescindere da che parte stiano, sono dei vinti ai quali non resta che essere obbligati a un sorriso violento, imposto con dei tagli fisici sul volto, per avere quell’agognata approvazione sociale.
Fra le tante critiche mosse al regista spicca, sicuramente, la presunta misoginia. I suoi film difatti mostrano spesso terribili sequenza di stupri e pestaggi verso donne del tutto indifese; tuttavia in vari lungometraggi, il regista contraddice questa critica, si veda Visitor Q (2001) dove mette in scena una famiglia che da patriarcale si rivelerà matriarcale o, in Audition (1999) in cui sarà proprio una donna autrice di torture verso i vari uomini. Rimane comunque sempre il dubbio latente che, alla fine, dietro la macchina da presa vi sia comunque un uomo.
Altri miei articoli di Alessia Ronge in https://www.taxidrivers.it/author/alessia-ronge